Gino Bianco, giornalista e saggista, è stato, fra l’altro, redattore di Tempo presente, rivista diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone negli anni ’50 e ’60, alla quale collaborò anche Andrea Caffi. Ha curato varie antologie di scritti caffiani, fra cui Critica della violenza, (edizioni e/o).
Andrea Caffi, pur essendo stato un personaggio tutt’altro che secondario nella storia del socialismo, è sempre rimasto abbastanza in ombra. Le storie del socialismo raramente lo citano…
E’ vero, Andrea Caffi non è un pensatore e un militante particolarmente conosciuto, nonostante che, con la sua azione e i suoi scritti, abbia attraversato la storia del socialismo italiano e russo dall’inizio del secolo fino agli anni ’50. Solo recentemente lo si sta riscoprendo, ma ancora gli si dedica meno attenzione di quanto meriti. Il motivo di questo oblìo è forse da attribuire al fatto che il suo pensiero risulta irriducibile a ideologie già costituite. Era certamente, e dichiaratamente, un libertario, ma non fu mai un militante anarchico; era un socialista, ma criticava la politica dei partiti socialisti e socialdemocratici; partecipò al movimento operaio russo dei primi anni del secolo, ma fu sempre un antibolscevico; per qualche tempo militò in "Giustizia e libertà", ma non fu mai un liberalsocialista.
Andrea Caffi era costitutivamente anti-sistematico. Rifiutava ogni ordine di idee fondato su un certo numero di postulati e riducibile a un principio unico; tanto più rifiutava l’idea di trattare la società come un sistema logico o matematico o come un insieme di individui, di gruppi, di meccanismi e fatti materiali, organizzati secondo un criterio unico e dominante. Sapeva che le scienze hanno perduto la grande fede in se stesse che avevano avuto fino alla fine del secolo scorso, e non a caso scriveva: "E’ entrata in crisi la grande credenza che sostituì le credenze religiose: che la scienza conduce alla saggezza, alla conoscenza di sé e del mondo". Cionondimeno, criticava anche il "fanatismo relativista", ossia la concezione che riconduce tutto alle condizioni storiche e sociali.
Ma quello che Caffi ha pubblicato durante la sua vita, ed anche quanto pubblicato postumo, nelle due differenti versioni di Critica della violenza e negli Scritti politici, lo rappresenta, per dirla con Montaigne, soltanto "obliquamente". Di lui occorrerebbe parlare soprattutto come persona, perché la sua vera grandezza fu di essere una grande persona. Nicola Chiaromonte, che fu il più fedele e profondo dei suoi amici-discepoli, nell’introduzione alla raccolta di saggi che pubblicò Bompiani, non a caso lo definisce "l’uomo migliore, il più giusto, che io abbia conosciuto". La sua grandezza come persona è principalmente dovuta al fatto che pensava "socraticamente", cioè con gli altri e per gli altri. Nemico di ogni sapere accademico, il suo modo naturale di riflettere era il dialogo, lo scambio di idee faccia a faccia, contro ogni preconcetto e fuori da ogni schema, da cui risultava, per dirla ancora con Chiaromonte, "la visione del fenomeno salvo dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo". Caffi, anche se aveva studiato col filosofo tedesco Georg Simmel e aveva scritto qualcosa insieme al filosofo italiano Antonio Banfi, come lui allievo di Simmel, era soprattutto, per formazione e studi, uno storico. Ma anche come storico la sua concezione era particolare: per lui la storia era semplicemente il ricordo del passato, un passato nel quale non si danno eventi privilegiati e del quale la facoltà mitopoietica è "l’humus primevo e ricorrente". In altre parole l’originalità profonda del pensiero di Caffi sta nel concepire l’essenza, la verità viva, la "sostanza sacra", dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.
Insomma, per Caffi il modo di essere costituiva l’aspetto fondamentale…
In effetti, Caffi teneva sempre presente "come" concretamente vengono vissute le relazioni umane, al di là delle categorie teoriche; questo era il suo modo di sentire la società, la natura del cambiamento sociale, la struttura e le funzioni dello Stato. Fu in virtù di questo modo di sentire e pensare che arrivò a denunciare le crepe dei sistemi sociali che rifiutano i costumi e gli usi che storicamente emergono, ritenendosi razionali secondo una razionalità astratta. E’ anche per questa componente "esistenziale" che dai suoi scritti emerge un esame spregiudicato, approfondito, in più di un punto geniale, delle categorie fondamentali cui ci rifacciamo per dibattere e chiarire i problemi della convivenza civile. Centrali erano per lui le contrapposizioni fra società e Stato burocratico, fra cultura e nazione, fra umanità e violenza. E’ sempre in conseguenza di questo "esistenzialismo" che, nonostante fosse coinvolto in tutte le passioni del secolo, aveva, come Thomas Mann, un certo sospetto nei confronti della politica. Diceva che bisognava guardarla come si guarda un cane rabbioso.
Caffi era lontano dalla politica come ideologia o militanza e non a caso, in un saggio sulla rivoluzione russa scritto nei primi anni ’30, sosteneva che politica e cultura richiedono propensioni incompatibili: la politica, soprattutto quella delle teste quadre, degli apparati rivoluzionari, implica, per dirla con Schopenhauer, l’esercizio della volontà, mentre la creazione culturale, artistica e letteraria, implica quello della contemplazione. Ripeteva spesso che le creazioni dello spirito gli apparivano sempre più efficaci delle imprese politiche. E infatti Carlo Rosselli lo accusò di concepire "Giustizia e Libertà" e la sua azione come una sorta di contemplazione.
Tutto questo, tuttavia, nulla toglieva al fatto che la politica esiste e bisogna cercare di "aggredirla". Del resto lui l’aveva aggredita sin dagli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialdemocratico di Pietroburgo (dove era nato nel 1886 da genitori italiani), poi con la partecipazione alla rivoluzione del 1905, durante la quale venne arrestato, e a quella del ’17. In seguito dovette scappare dalla Russia.
Una volta tornato in Italia seguì da vicino l’ascesa del fascismo. Poiché in un lungo articolo sulla rivista Volontà aveva denunciato con nome e cognome il mandante del delitto Matteotti, cioè Mussolini, per evitare l’arresto fu costretto a scappare e riparò, come moltissimi altri antifascisti, in Francia, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1955. Partecipò, anche se indirettamente, alla guerra civile spagnola e durante la seconda guerra mondiale collaborò con la resistenza francese, venendo arrestato dalla Gestapo. Non si può quindi dire che la politica, nel suo concreto divenire quotidiano, non lo interessasse. Il fatto è che Caffi, come dicevo, distingueva, credo giustamente, la politica come ambito dell’azione dal pensiero, dalla conoscenza storica e filosofica. In sostanza, la politica non aveva per lui un suo statuto specifico, ma era parte della vita e come tale andava affrontata, in essa si agisce e ci si rivela come persone, al di là di quel che si fa o si produce nell’ambito della cultura. In questo senso diceva che si può essere grandissimi musicisti, scrittori o poeti, e sordide persone, e, viceversa, essere mediocri poeti o scrittori e, contemporaneamente, persone meravigliose. Con una formula alla moda, comunque, potremmo dire che Caffi faceva politica, ma era un "impolitico".
E’ per questo essere "impolitico" che alcuni lo hanno avvicinato a Hannah Arendt?
Caffi ha dedicato molte riflessioni a questioni politiche centrali, ha analizzato molto bene le modificazioni che si sono prodotte nella società contemporanea e l’impossibilità di comprenderle utilizzando le categorie interpretative sorte nell’800. Aveva previsto anche la crisi della democrazia rappresentativa, impossibilitata a far fronte alla complessità del mondo contemporaneo. D’altra parte, sottolineava che, comunque, la democrazia rappresentativa moderna era in crisi fin dal suo sorgere ed aveva ben poco in comune con la democrazia ateniese. Con Hannah Arendt condivideva quindi lo scetticismo, il disincanto, rispetto alla modernità, anche se gli restava la fiducia nell’antica lotta per quella giustizia sociale che non riteneva meno importante della libertà. Forse è anche per via di questo scetticismo di fondo che in Caffi mancano indicazioni precise in senso costruttivo. Lui aveva chiaro in che direzione andassero cercate le risposte e quello che tali risposte non potevano tralasciare, ma quali potessero essere in pratica quelle risposte non lo ha mai detto, se non per linee generalissime.
Come Hannah Arendt Caffi si interessò moltissimo alla questione del totalitarismo. A differenza della Arendt, che rifletteva essenzialmente sulle esperienze radicali del nazismo tedesco e del comunismo sovietico, Caffi sosteneva che c’erano altri totalitarismi, come quello di Franco, oppure autoritarismi assai particolari, come quello di Peròn in Argentina e quello di Pilsudskj in Polonia. Questo tuttavia nulla toglieva alla particolarità del nazismo che, però, per lui sarebbe potuto nascere in qualsiasi altro paese d’Europa, perché era frutto della decomposizione della civiltà europea.
Quello che faceva questione, in sostanza, è la forte presa di un potere sulla società nel suo insieme ed è da questa concezione che deriva anche un certo suo antiamericanismo. Senza pensare che gli Stati Uniti fossero un paese autoritario o dittatoriale, tuttavia rifiutava decisamente il modo rozzo in cui là si era impostato il rapporto tra politica, poteri economici e cultura di massa. Riteneva gli Usa emblematici di questo tipo di rapporto e sottolineava la subordinazione massiccia cui era costretta la creatività culturale nei confronti dei fenomeni commerciali.
Su questo tema ebbe una polemica con lo scrittore ungherese, ex comunista, Arthur Koestler che in un pamphlet aveva difeso la politica di Churchill di arroccamento dell’Europa attorno agli Stati Uniti contro l’Urss. In quella polemica Caffi, così antistalinista da essere stato, per esempio, il primo in assoluto a denunciare l’assassinio di Kirov, segretario comunista di Leningrado, quale opera di Stalin, ma non anticomunista per principio, accusava Koestler e quelli che la pensavano come lui di voler imporre all’Europa la "pax americana", che lui invece rifiutava.
A questo antiamericanismo forse non era estranea la concezione caffiana del federalismo…
L’ideale federalista di Caffi era di tipo proudhoniano, quindi centrata sul rapporto orizzontale e diretto fra le varie comunità locali. Come per Simone Weil, una pensatrice che citava spesso, per lui era importante che ogni essere umano fosse radicato in una rete di relazioni, quindi in una cultura, in usi condivisi, riteneva che senza di essi non vi potesse essere federalismo. In senso politico, però, oggi diremmo che era un "euroscettico". Pensava che gli Stati Uniti d’Europa si sarebbero dovuti fare nel secolo scorso, dopo il 1848, ma già nel 1945 non li considerava più un progetto credibile. Aveva parecchi dubbi sulla possibilità di creare un’Europa federale: secondo lui ne minavano la realizzazione la rigida divisione del mondo in due blocchi contrapposti e, soprattutto, il predominio americano.
Tuttavia, la sua critica più radicale era nei confronti della sovranità degli Stati: diceva che non ci si può fidare dei governi degli Stati sovrani perché agiscono in base alla logica del "sacro egoismo" nazionale, non in base ai reali interessi del popolo. In un famoso articolo del 1935, che aveva suscitato polemiche all’interno di "Giustizia e libertà", aveva scritto: "Quello che porta l’Europa alla guerra non è il fascismo, ma l’assetto dell’Europa, divisa in Stati sovrani. Le spartizioni territoriali, i corridoi, le minoranze nazionali, la rovina economica creata dalle barriere doganali non è il fascismo che li ha inventati o creati". E la sua condanna era spietata e definitiva: "Lo Stato nazionale è un apparato di costrizioni al servizio di chi opprime e non vi è illusione più pericolosa di quella che lo considera uno strumento neutrale, al servizio sia della guerra che della pace, sia della libertà che dell’oppressione. E’ una prigione che non può essere neutrale: essa comporta sempre carcerati e carcerieri".
Caffi era un libertario radicato in una cultura romantica tipica del secolo scorso e della prima metà di questo, e certo aveva provato una forte delusione per il modo in cui il trattato di Versailles aveva cercato, dopo la prima guerra mondiale, di dare una risposta ai problemi delle nazionalità dell’Europa, agli ungheresi, ai boemi, ai polacchi. A suo avviso, in quel trattato risiedevano alcune delle cause della seconda guerra mondiale, così come la ragione per cui era ormai troppo tardi pensare ad un serio federalismo europeo.
Gli anni della seconda guerra mondiale, poi, furono cruciali per la maturazione della critica della violenza. Fino ad allora, pur essendo un pacifista convinto, non condivideva, come invece accadrà poi, la convinzione kantiana che la pace sia la condizione naturale dell’uomo, per questo ipotizzava la possibilità di ricorrere alla violenza contro un colpo di Stato di destra, contro gli usurpatori della legittimità, o che la classe operaia potesse insorgere contro la classe borghese. Dopo Auschwitz, dopo la bomba atomica, si convinse che a una violenza divenutata talmente totalizzante, talmente vasta, bisognasse resistere in modo non violento, perché ogni violenza, in realtà, avrebbe riprodotto condizioni umane violente ed oppressive. Da allora la scelta della non violenza, che a volte trovava in lui accenti quasi gandhiani, divenne fondamentale e certo rispecchiava bene il suo modo di essere esistenziale.
In questa costitutiva "impoliticità" quanto spazio aveva il bisogno di mito, che Caffi contrappone sempre alla logica dell’utile?
Per lui il superfluo, anche nella vita pratica, veniva sempre prima del necessario, era ciò che dava valore e sapore al vivere. Per questo aborriva la logica utilitaristica.
Scrisse Note sulla cultura di massa, un saggio che Eliot considerava una delle cose più acute che avesse mai letto, in cui, quale esempio del mutamento del modo di essere delle persone imposto dalla modernità, fa un’analisi della differenza tra il leggere e l’andare al cinema. Il cinema, nonostante si presentasse come fabbrica dei sogni, contribuiva a distruggere la capacità di sognare: la macchina da presa isola la realtà e le toglie quella ambiguità, quelle nuances che, invece, nella lettura restano salve e stimolano la capacità di sognare. In sostanza, la cultura di massa, come la tecnologia e la meccanizzazione del mondo, avevano ridotto sempre di più gli orizzonti mitologici del nostro tempo. In un altro passaggio dello stesso scritto dice che una civiltà si può giudicare tanto più sviluppata, quanto più è attivo e presente l’orizzonte mitologico.
Ma quanta parte delle idee di Caffi è da attribuire alla delusione per la piega presa dalle rivoluzioni cui aveva partecipato?
Certamente gli avvenimenti, non certo pochi, cui partecipò lo segnarono moltissimo. Nei suoi scritti ritorna spesso l’amara considerazione che tutti i grandi movimenti di idee, le utopie, le rivoluzioni socialiste, nel momento in cui si realizzano, rivelano la discrepanza tra il sogno che le animava e l’effettiva costruzione statuale o sociale che realizzano. Non era solo la delusione storica, quanto un "dubbio sistematico" (l’espressione è di Moravia che da giovanissimo conobbe Caffi e lo frequentò fino alla sua morte), derivatogli da una profonda conoscenza storica e dalla sua formazione filosofica influenzata da Simmel e da Nietzsche in primo luogo, a portarlo a pensare che certe caratteristiche della nostra epoca -il livellamento generale, le grandi scoperte scientifiche e l’avvento di tecnologie che impoveriscono l’orizzonte intellettuale e la capacità mitopoietica dell’uomo contemporaneo- stavano creando un mondo sempre meno controllabile.
Occorre resistere, sosteneva Caffi, ai cambiamenti genetici delle persone, alla minaccia di quella che oggi chiameremmo "tecnocrazia". Per questo era molto critico nei confronti dei partiti socialisti europei: si rendeva conto che avevano fatto ben poco per resistere alla massificazione, alla mercificazione culturale. Li vedeva preoccupati solo di accrescere il numero dei parlamentari e il potere.
Su questi punti tornava spessissimo, erano un suo leit-motiv…
Caffi ha sempre pensato che il socialismo fosse quanto di più alto la civiltà occidentale, anzi l’umanità intera, avesse espresso.
Il suo, però, non era un socialismo politico. Sottolineava continuamente che la politica non è tutto, ma conta l’habitat sociale complessivo; conta la cultura che non vedeva mai come il prodotto di una sola classe sociale perché le classi sociali non si incrociano senza vedersi; conta la storia, una storia malleabile, mai pietrificata, fonte di narrazione, vocazione al racconto, ricorso all’immaginario.
Anche per questo uno dei bersagli della sua critica era spesso lo storicismo, la "peste omologante" che cancellava le differenze e, pertanto, anche l’eccezionalità...
Caffi insiste sempre sull’elemento della "socialità". Come la intendeva?
La socialità, per lui, si basa sull’affinità spontanea, non può fondarsi né sul popolo in sé né, tantomeno, sullo Stato; aggiungeva che dove non c’è spontaneità, c’è forza, c’è violenza. Per Caffi la socialità è una sorta di "condivisione originaria" come quella che si può ritrovare, ad esempio, fra allievi di una stessa scuola. E infatti, per rendere l’idea di quel che intendeva, citava proprio l’esempio degli allievi del liceo russo nel quale aveva studiato: ragazzi, figli di persone diversissime, appartenenti a tutte le classi sociali, che avevano mantenuto nel tempo un certo modo di essere che li faceva sentire sodali anche al di là delle diverse scelte fatte nella vita. La socialità, il sodalizio, erano il cardine della sua concezione sociale, cardine che sosteneva tutte le sue idee sulla violenza, sulla libertà, sulla necessità di ridurre, se non eliminare, lo Stato.
Nel concepire il socialismo come critica alla modernità, come una sorta di "religione atea", Caffi a quale tradizione si riallacciava?
Certo in questa concezione c’è quasi una connotazione religiosa -del resto Caffi era molto interessato anche al misticismo, che riteneva una delle forme più alte di conoscenza, così come ai fenomeni ereticali-, e questa connotazione religiosa proveniva dalla tradizione del socialismo rivoluzionario e del populismo russi.
Un pensatore cui si riferiva sempre -personaggio affascinante, ingiustamente misconosciuto- era Aleksandr Herzen, che di queste tradizioni era stato critico, ma anche teorico e costruttore.
Altri pensatori che Caffi citava spesso erano Proudhon e Kropotkin, con cui era in corrispondenza e per il quale nutriva una grande ammirazione non solo come pensatore anarchico, ma per le grandi qualità di geografo e per la profonda conoscenza della realtà russa. Lo conobbe anche personalmente, prima della Grande Guerra.
Caffi in quel periodo soggiornava a Firenze dove, fra l’altro, collaborava a La Voce di Prezzolini: fu in quell’occasione che conobbe anche Soffici, Slataper e tutta quella che allora era l’avanguardia letteraria italiana. Kropotkin si trovava a Rapallo e Caffi andò a incontrarlo.
Con Kropotkin Caffi condivise anche la posizione interventista durante la prima guerra mondiale, durante la quale, pur non rinunciando alle sue convinzioni pacifiste, si arruolò come volontario nell’esercito francese.
Fu una scelta che stupì tutti i suoi amici dell’epoca e che lui cercò di spiegare ricordando che il suo era un interventismo democratico, contro gli autoritari imperi centrali. Ma aggiungeva sempre che l’aveva fatto anche per andare dove erano i suoi amici. Ecco, anche in questo senso della camaraderie si può capire cosa Caffi intendesse con "socialità".
Questo alto senso della camaraderie ha in qualche modo a che fare con la sua omosessualità?
E’ difficile dare una risposta precisa. Moravia sosteneva che un po’, in questo amore della camaraderie, l’omosessualità c’entrava, ma è molto probabile che molti dei suoi legami siano stati platonici. Rimane comunque il fatto che i suoi rapporti più profondi li ebbe con persone, Chiaromonte, Moravia, Faravelli, che era il direttore della rivista Critica sociale, i quali, come lui, condividevano l’amore per l’amicizia intima, per la condivisione che una tale amicizia permette.
E’ anche certo che il mondo femminile gli era abbastanza estraneo, in genere non legava con le donne, nemmeno con le compagne o le mogli dei suoi amici più stretti. L’unica donna con cui ebbe un rapporto molto profondo fu Tatiana Osserguine, moglie dello scrittore Michael Osserguine, per la quale aveva una devozione e un’amicizia assolute.
Era un "eremita socievole". C’era in lui una coerenza eccezionale, ed è anche questo che affascinava chi lo ha conosciuto, chi ha visto come viveva. Caffi sosteneva, e soprattutto testimoniava con la sua esistenza, che la ricerca del vero diventa un affare equivoco non appena vi si mescolino preoccupazioni di successo, e questo riguarda la politica, ma anche lo scrivere, la letteratura, la narrativa...
Coerentemente con tutto questo, Caffi, che pure aveva una cultura enciclopedica, -era un grande slavista e aveva compilato varie voci per l’Enciclopedia Italiana-, viveva in una povertà assoluta e si guadagnava da vivere facendo il "negro" per vari autori, anche importanti, molti dei quali, amareggiandolo, non riconobbero mai il debito contratto con lui.
Una povertà che non lo abbandonò mai totalmente, neanche quando Albert Camus lo spinse a diventare lettore per Gallimard.
L’incontro fra Caffi e Camus avvenne nei tardi anni ’40, grazie all’intercessione di Chiaromonte che aveva conosciuto Camus nel 1940 ad Algeri. Stabilirono un rapporto molto stretto e Camus, intelligentemente, capì che Caffi avrebbe potuto compilare delle schede straordinarie su libri di ogni tipo, dalla storia del mondo antico alla storia delle religioni, alla grande letteratura di cui aveva una conoscenza approfonditissima.
Ne raccomandò a Gallimard l’assunzione come lettore, ma non fu facile vincere le resistenze dello stesso Caffi, refrattario ad ogni impegno lavorativo metodico e assai maldisposto, in virtù delle esperienze passate, verso il mondo della cultura ufficiale.
Fu così che, sempre con qualche reticenza, l’"eremita socievole" passò gli ultimi anni della sua vita: fra quella cultura che era stata la passione della sua vita e la molla del suo agire.
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