Ho ripercorso, leggendo il bel libro di Gozzini (Sulla Frontiera. Camillo De Piaz, la Resistenza, il Concilio e oltre, Scheiwiller 2006), molti anni della mia lunga vita, e in particolare gli anni del primo dopoguerra. Non ho preso parte attiva alla guerra, esentato a forza, per ragioni esagerate di salute, dai doveri militari e protetto oltre la mia volontà dalla disperazione di mio padre, che si era opposto inutilmente all’esilio in Svizzera di mio fratello maggiore. Avevo solo assistito, il 25 aprile, dalla finestra della mia casa di Milano, durante il pranzo interrotto da grida, all’uccisione di quattro giovani fascisti che, armati e in divisa, quell’ultimo giorno di guerra, il primo della Liberazione, si erano scontrati, volontariamente, con una camionetta di partigiani. Il giorno dopo, con Desiderio Gatti, conosciuto da poco all’Università, e Giovanni Fei, un altro amico della Corsia, avevo visto la sfilata dei soldati tedeschi prigionieri insultati dai due cordoni di folla. Noi tre eravamo fra i pochissimi in silenzio. Credo sia stato Gatti a portarmi alla Corsia, ma non ricordo quando. Deve essere stato alla fine del 1945 o ai primi mesi del 1946, se, come ricordo vagamente, ho preso parte ad alcune riunioni dell’UOMO, non più clandestino, e vi ho anche pubblicato qualcosa. Ricordo Angelo Romanò, Lillo Santucci, che ci prendeva in giro, con quel garbo che non lo ha mai abbandonato, Mario Apollonio, che ci sembrava severo, e i due serviti, Davide e Camillo. Mi pare di ricordare che ci fosse anche un terzo servita forse ancora più giovane, accanito a imitare e a superare i due confratelli in un impegno che aveva qualcosa di forzato. Lo si è visto per poco, scomparso dalla Corsia, forse rientrato nel secolo, spretato, ma è un’ombra vaga, nella mia memoria, una traccia labile di defezione. Cosa era la Corsia, lo si ricorda o riconosce bene dalle pagine di Gozzini. Per me, anche per me, era un luogo di benessere religioso, se l’espressione ha un senso, che si contrapponeva o meglio si affiancava all’ambiente così diverso e per me non gradevole e non interessante dell’Università Statale, dove eravamo in pochissimi a frequentare Lettere. Alcuni nomi del racconto di Gozzini figurano anche nella mia memoria, ma con intonazione diversa. Il nome di Curiel, non la persona, per me è legato all’incarico, ricevuto da mia zia (la sorella di mia madre, che da giovane aveva frequentato i modernisti e ne era stata plagiata sino alla morte), di informare Banfi che un tal Pratichizzo incarcerato con l’accusa di aver ucciso Curiel era in realtà innocente. Mi sono rivolto a Banfi, con cui dovevo sostenere l’esame di estetica pochi giorni dopo, e gliel’ho detto. Banfi, continuando a passeggiare in biblioteca -passeggiava anche facendo lezione e da allora chi fa lezione passeggiando, qualsiasi cosa venga dicendo mi provoca un’irritazione violenta- cominciò subito a gridare e a insultarmi, dicendo che i sicari fascisti, anche se innocenti, non vanno difesi, o qualcosa del genere. Io mi sono spaventato e ho cominciato a tremare e a piangere, mentre Banfi si allontanava. Mi ha accolto fra le sue braccia un grande amico di allora, morto quest’anno, Iacopo Muzio, studente di filosofia e comunista. Banfi dirigeva allora il Fronte della Gioventù, che reclutava sin troppo generosamente chi voleva partecipare al rinnovamento della vita politica e civile. In un certo senso, era una sorta di Corsia per la formazione politica, con una tracotanza e un insopportabile sfoggio di potere recente (“ora tocca a noi”), certo giustificato per molti ma non per chi come me avrebbe desiderato l’elaborazione del lutto come prima forma della ripresa della libertà. La Corsia era anche una sorta di approdo religioso da vie ed esperienze diverse. Per me, la garanzia di un modo di partecipare ad un “sentire” comune che, senza istituirsi ancora in una confessione di fede, non ne era certo estraneo e poteva alimentarsi di letture e di conversazioni, senza che questo costituisse una scelta o un discrimine. Se nei discorsi, nelle prediche e negli esempi offerti apparivano i temi più propriamente religiosi, i nomi delle cose sacre, non per questo ci sembrava imposta una domanda sulla nostra fede o un certificato di appartenenza al cattolicesimo. Per chi, come me, aveva frequentato la parrocchia e si era accorto, con sgomento e incredulità, di non sapere se essere o meno credente, di avere o di aver perso la fede, la Corsia rappresentava un luogo pr
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