Partiamo dal welfare. Viviamo in un paese in cui lo stato sociale è stato studiato per il lavoro dipendente. Chi non è dipendente si ritrova con un welfare dimezzato, solo alcune tutele sono infatti previste per chi è autonomo: la maternità e, in piccola parte, la malattia. Ma anche l’accesso a queste è spesso difficile perché, a differenza che nel lavoro dipendente, la tutela prevede sempre un pregresso e un minimo contributivo. In una fase in cui i lavori cambiano, si passa ripetutamente da una professione a un’altra, ci sono dei periodi di non lavoro, o di più lavori insieme, accade sempre più di frequente che i lavoratori non riescano ad accedere neanche a queste tutele.
Abbiamo diverse donne che ci consultano perché non riescono ad accedere alla maternità, perché magari hanno versato su due casse e in nessuna delle due hanno raggiunto il minimo contributivo. Oppure perché hanno cambiato lavoro e non hanno il pregresso della cassa precedente.
Poi ci sono ambiti in cui il welfare manca proprio. Per noi non esiste la disoccupazione, che in Italia è prevalentemente assicurativa. Questo modello risulta difficile da applicare a un mondo in cui spesso le regole d’ingaggio non prevedono il versamento dei contributi. Mi riferisco per esempio a chi lavora con collaborazioni occasionali o in regime di diritto d’autore, tutte formule apparentemente pensate per favorire il lavoratore, ma che si sono rivelate modalità in cui il vantaggio (di non pagare contributi) finisce tutto in capo al datore di lavoro, che ha abbassato i compensi.
Siamo esclusi anche dalla formazione, che è prevista per i disoccupati, per gli occupati dipendenti, ma non per gli occupati autonomi. Invece proprio in un contesto di professioni che cambiano nel tempo e con elevati rischi di incorrere in processi di despecializzazione, la formazione sarebbe molto importante.
Un’ultima annotazione su un tema oggi molto di moda, il welfare aziendale, che è pagato anche con la fiscalità generale, e che però va a beneficio soltanto di una parte dei lavoratori. Di nuovo infatti sono esclusi tutti i lavoratori autonomi. Cito questo caso perché quando si parla di tutele di tipo universale, si dice sempre che ognuno deve pagare la sua parte, però esistono anche forme di welfare in cui la fiscalità generale continua a intervenire.
Questo per quanto riguarda il panorama del welfare.
Passiamo agli altri due aspetti, fisco e compensi.
La questione fiscale negli ultimi anni è stata affrontata prevalentemente attraverso i regimi agevolati. Devo dire che noi come associazione ci siamo sempre espressi in maniera contraria a questi regimi, perché agiscono in maniera distorcente, nel senso che sono favorevoli soprattutto a certe condizioni, cioè l’essere più vicini possibili alla soglia massima del fatturato e avere pochi costi legati alla professione (quindi essere più vicini diciamo al lavoro autonomo finto piuttosto che a quello vero); inoltre, questi regimi non incentivano gli investimenti, la formazione e la crescita perché creano una sorta di tappo. Ma soprattutto una tassazione piatta di fatto risulta regressiva, cioè i più favoriti non sono mai quelli dai redditi più bassi, che spesso addirittura non hanno neppure la convenienza a scegliere il regime agevolato.
Non è però facile intervenire sul fisco perché anche qua si opera un po’ a compartimenti stagni. Noi, ad esempio, storicamente, abbiamo lo svantaggio, rispetto al lavoro dipendente, della diversa definizione della no-tax area. La nostra soglia è di 4.800 euro contro gli 8.000 del lavoro dipendente. Non si è mai capito bene perché, a parità di reddito, ci debbano essere no tax aree diverse. Così come siamo stati sfavoriti dall’introduzione del bonus degli 80 euro che riguardava soltanto il lavoro dipendente.
Ecco, noi pensiamo che occorrerebbe intervenire nella direzione di una ...[continua]
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