Tutto cominciò il 18 ottobre, quando le “evasioni” della metropolitana portate avanti dagli studenti medi compivano una settimana dal loro inizio. I ragazzi protestavano contro l’aumento di trenta pesos del prezzo del biglietto della metro (circa quattro centesimi di euro) saltando le barriere e non pagando. Durante quella settimana avevano raccolto solidarietà dal resto della popolazione, e quel giorno toccarono il picco della loro forza: durante il pomeriggio bloccarono totalmente le sette linee della metropolitana paralizzando così il traffico urbano di Santiago, poi tutto precipitò vertiginosamente e durante la serata la protesta dilagò a macchia d’olio. Le radio e le televisioni informavano di barricate in tantissimi punti della città, e col passare delle ore si accumulavano immagini di macchine e autobus incendiati, stazioni della metro messe a ferro e fuoco, fino a che apparve avvolto dalle fiamme l’edificio di Enel-Chile, impresa controllata dal gruppo Enel italiano e che gestisce l’energia elettrica della capitale. A notte fonda il Presidente della Repubblica decretò lo stato d’emergenza. Il giorno dopo, sabato 19, la miccia si accese nel resto delle grandi città cilene e proteste, manifestazioni, scontri e barricate si diffusero per tutto il fine settimana. Domenica 20 in sei grandi città vigeva lo stato d’emergenza e in tre di esse, Santiago, Valparaiso e Concepciòn, era stato decretato il coprifuoco.
La storia della rivolta cilena dell’ottobre 2019 è la storia di una pentola a pressione che esplode improvvisamente e lascia il vuoto attorno a sé. Da più di cinquanta giorni il Cile è scosso da una rivolta sociale senza precedenti che interessa tutto il territorio nazionale e unisce giovani e anziani, donne e uomini, studenti e lavoratori. E fin da subito è stato chiaro che il problema vero non erano i 30 pesos della metro ma i trent’anni precedenti, quelli che separano il Cile odierno dal ritorno della democrazia. La transizione avvenuta tra il 1988 e il 1990 aveva sì recuperato la democrazia politica ma aveva clamorosamente fallito la democratizzazione del potere sociale ed economico ereditato dalla dittatura di Augusto Pinochet.

Il laboratorio del neoliberalismo
I 17 anni di dittatura (1973-1990) non hanno lasciato solo una pesantissima eredità in termini di repressione, torture, sparizioni di persone ed esilio. La dittatura usò la violenza piu selvaggia per instaurare un preciso ordine sociale ed economico, un modello ispirato ai principi degli economisti neoliberali radunati attorno alla Scuola di Chicago. Proprio come in un laboratorio, Milton Friedman e i suoi Chicago boys ebbero a disposizione un corpo sociale in stato di shock da poter operare e dissezionare a piacimento per applicare le proprie ricette: tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta misero mano al sistema di sicurezza sociale (sanità e pensioni), al sistema di relazioni industriali (contrattazione collettiva), al sistema di istruzione, all’ambito dell’uso e gestione delle risorse naturali (acqua), e sancirono il tutto nella nuova Costituzione imposta nel 1980. In ognuno di questi ambiti gli interventi furono fatti all’insegna delle privatizzazioni selvagge, del ruolo sussidiario dello Stato, del congelamento della participazione sociale, dell’espansione delle logiche di mercato a tutti gli ambiti della vita, e nel complesso tesero a restituire nelle mani del Capitale quel potere unilaterale che era stato messo in discussione dall’esperienza dell’Unidad Popular di Salvador Allende (1970-1973).
Mantenendo inalterato questo status quo, durante gli ultimi trent’anni il Cile si è profilato come una democrazia caratterizzata da una concentrazione della ricchezza e del potere grossolana, tanto che risulta essere il paese appartenente all’Ocse con il livello più alto di disuguaglianza. In Cile una piccolissima fetta di popolazione, l’1%, accumula ricchezze stratosferiche e vive livelli di benessere economico assimilabile ai paesi europei più avanzati o agli sceicchi del Qatar, mentre la maggioranza vive nella precarietà. Il 50% dei lavoratori guadagna meno di cinquecento euro, nel 2018 la metà dei pensionati ha ricevuto una pensione inferiore a 170 euro mensili ma, come scrive “Le Monde”, il costo della vita equivale a quello di un paese europeo. In questo contesto le famiglie sono costrette a ricorrere all’indebitamento sistematico per vivere: il Cile registra più di 11 milioni di persone indebitate (su una popolazione totale di circa 18 milioni), e i debiti rappresentano il 74% del reddito delle famiglie.

Una rivolta in divenire
Dal 18 ottobre il paese è attraversato da un’energia nuova e potente che si esprime in mille forme: manifestazioni oceaniche, atti culturali, “cacerolazos” spontanei agli angoli delle strade, barricate e scontri violentissimi, coreografie, assemblee territoriali. Siamo in presenza di un fermento sociale tutt’ora in divenire, ma che permette di segnalare alcuni aspetti significativi.
La rivolta dell’ottobre cileno è una rivolta profondamente popolare, i cui protagonisti sono lavoratori, studenti e tutta quella massa di poveri e precari che vivono nelle periferie del paese e che sono uniti dall’odio verso l’ordine post-dittatura e verso la classe imprenditoriale che si è arricchita comprando e vendendo diritti sociali. Uno degli slogan più in voga dice che “siamo stati il laboratorio dove il neoliberalismo è nato e saremo la sua tomba” e la richiesta principale delle piazze è “dignità”, qualcosa di profondo e strutturale che non si lascia soddisfare da concessioni puntuali e limitate, che si ribella all’idea che la vita della maggioranza dei cittadini sia considerata una semplice merce di scambio per il profitto di pochi.
Di fronte a ciò il governo balbetta e ricorre all’uso sistematico della violenza. Amnesty International, Human Rights Watch e l’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu hanno denunciato ufficialmente la repressione brutale messa in atto dalle forze dell’ordine che ha portato all’uccisione di alcuni manifestanti, all’uso di torture, violenze sessuali, e di proiettili ad altezza d’uomo che stanno causando gravissimi problemi per gli occhi di chi manifesta, provocando la perdita parziale o totale della vista per tantissime persone.
Ma l’onda della rivolta travolge anche la sinistra, accusando le sue organizzazioni storiche di essersi accomodate alle regole del modello. In questo senso la rivolta cilena travalica i tradizionali confini della democrazia rappresentativa e si caratterizza tutt’ora come una rivolta acefala, che non ha permesso l’affermazione di leader che possano arrogarsi il diritto di rappresentare il movimento e che predica al contrario l’importanza di mettersi in gioco in prima persona invece che delegare ad altri. Da qui nascono le miriadi di assemblee territoriali che in queste settimane si stanno riunendo per discutere problemi e programmare iniziative, e che in qualche modo stanno ripensando la democrazia, la rappresentanza, ideando altre forme per discutere e deliberare.
Rifuggendo da facili semplificazioni, la rivolta cilena sta ancora vivendo una complessa fase di gestazione e maturazione, e non lascia intravedere sbocchi concreti nell’immediato. In essa si stanno incontrando e conoscendo le tante storie di precarietà generate da un modello che finora era riuscito a tenerle separate, a individualizzarle, a renderle funzionali attraverso il consumo e l’indebitamento, e che ora gli si rivoltano contro. Sono tuttora frammenti di un discorso che si sta lentamente costruendo, alla ricerca di un “noi” che sia capace di fare fronte a “loro”, gli sfruttatori di sempre, quelli che stanno in alto e governano sulla nostra pelle.
In questo contesto, le ultime settimane hanno visto l’affermazione del femminismo come un componente irrinunciabile del movimento. Grazie alla coreografia “un violador en tu camino”, che si è replicata nelle piazze di tutto il mondo, la rivolta ha fatto propria la denuncia della violenza che il sistema giudiziario, culturale, sociale, economico e politico esercita sulle donne, e ha cominciato a criticare in maniera radicale l’attuale forma di concepire il potere ed organizzare la società e l’economia.
Le donne rappresentano una voce forte che si oppone al patriarcato e al machismo che ancora caratterizza questa società, e propongono di cambiare il modo di fare e dire le cose sfidando in maniera radicale le culture tradizionali che, dentro e fuori dal parlamento, hanno storicamente dominato il discorso politico di questo paese.
Grande è ancora il lavoro a venire per il movimento rispetto al “chi siamo”‘ e al “che” e “come” fare, e grande è tuttora l’incertezza sul come potrà evolvere la situazione. Nelle piazze e nelle barricate cilene, tuttavia, troviamo elementi preziosi che possono umilmente offrire stimoli ai movimenti critici e antagonisti anche aldilà dell’oceano, in Europa e in Italia. La rivolta cilena, infatti, si propone ai nostri occhi europei come una rivolta del futuro, perché dal futuro ci mostra i disastri e le macerie a cui ci stanno portando le politiche neoliberiste e al tempo stesso la necessità e la possibilità di ribellarsi.