Una volta Max Weber ebbe a osservare che la politica non è come un taxi: non si può chiedere di fermarsi a un angolo qualunque e dire: “Voglio scendere”. L’azione mossa dall’ideologia tende a generare dinamiche che si fanno sempre più radicali. È questo il miglior modo per comprendere gli eventi del 6 gennaio 2021, e per capire chi ne sia responsabile. Quattro anni di incessante propaganda neofascista, di violenze da parte della polizia e di polarizzazione politica hanno preparato il campo a un evento in cui circa ottomila rivoltosi sono calati su Washington DC. Volevano protestare contro la sconfitta elettorale del presidente e smascherare una presunta minaccia alla democrazia rappresentata da svariati agenti cospiratori, incluso il “deep state”. In una sorta di strana parodia del 1789 e del 1917, gli estremisti presenti nella folla hanno assaltato Capitol Hill, non esitando a fare irruzione negli uffici, sedersi negli scranni, distruggere suppellettili e dipinti, costringendo i politici presenti a fuggire per mettersi in salvo.

In questa vicenda non ci sono “due fazioni”. Trenta ore dopo il tentato golpe il bilancio riportava sei morti, molti feriti, e la sede del governo ridotta in condizioni disastrose. Solo a quel punto il presidente Trump si è rivolto alla nazione con un video per rassicurare il paese che il passaggio di consegne a Joseph Biden del 20 gennaio si terrà in modo pacifico, rinnegando quelle “persone speciali” che, in precedenza, aveva affermato di “amare”. Certo erano un drappello molto caratteristico. Uno indossava una felpa con cappuccio con la scritta “Camp Auschwitz”, un altro una maglietta con la scritta “Sei milioni non sono abbastanza”. Altri ancora erano abbigliati con indumenti para-militari, e c’erano molti berretti rossi con lo slogan di Trump: “Make America great again” [rendiamo l’America di nuovo grande]. Slogan che avrebbe potuto anche essere “Make America white again” [rendiamo l’America di nuovo bianca], dal momento che non mi risulta ci fossero persone di colore nella folla in rivolta. Cosa che peraltro ha senso: un idiota sventolava una gigantesca bandiera dei confederati e un altro, apparentemente uno “sciamano” del bizzarro movimento ossessionato dalle cospirazioni Q-anon, indossava un cappello di pelliccia con tanto di corna.

Come si è arrivati a tutto questo? È dai tempi della Guerra civile che esiste una tradizione politica intenta a delegittimare la Repubblica, una tradizione che ha base, perlopiù, in certe zone rurali del Midwest e del Sud. È impossibile dimenticare la retorica e la violenza adoperate sin dai tempi del Ku Klux Klan, o dai Citizen councils, la rete di associazioni razziste degli anni Cinquanta e Sessanta.
In poche parole, c’era una base di massa in attesa, man mano che il 2021 si avvicinava. Guidati dal nazionalismo bianco e da impulsi autoritari, i suoi militanti volevano il ritorno alla “vera” America, quella in cui la donna se ne stava in cucina, i gay si nascondevano, agli immigrati toccavano i lavori più umili, e i neri se ne stavano lontani dalla vista. Cristallizzata nello slogan trumpiano “America First!” -preso da movimenti para-fascisti degli anni Quaranta- questa immagine idealizzata e contraffatta della nazione sembrava loro sempre più minacciata. Secondo la propaganda reazionaria le femministe sono infanticide, i liberal e i socialisti “comunisti”, gli immigrati “criminali e stupratori”, il movimento Black Lives Matter è composto da gente che vuole fomentare una guerra etnica, gli scienziati esagerano i numeri dei morti per Covid, i politici di primo piano costringono “il popolo” a indossare le mascherine. Questi erano i “sovversivi” che, in combutta con un “deep state” corrotto e intento alle cospirazioni, giustificavano l’intento dichiarato di Trump di “prosciugare la palude” della burocrazia e della corruzione dilaganti a Washington.
Ma la purga presidenziale non si limitava ai democratici, doveva colpire anche i repubblicani “deboli”. Questi ultimi erano i moderati di centro-destra implicati con i due fallimenti bellici di George W. Bush in Afghanistan e Iraq, con la “grande recessione” del 2007-2009, e con ciò che è finito per diventare un vuoto ideologico interno al partito. Ancor prima dell’elezione del presidente Barack Obama, il movimento del Tea Party aveva già cominciato a formulare questa nuova agenda politica con il suo mix populista di nazionalismo bianco, ostilità per il welfare state federale, e timor ...[continua]

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