Nel marzo del 1861, quando sette stati schiavisti avevano già lasciato l’Unione, Abramo Lincoln, l’unico presidente oggi venerato sia dall’élite democratica che dai repubblicani, cercò di calmare i ribelli che si stavano preparando alla guerra armandosi. “Non dobbiamo essere nemici. Anche se le passioni dell’animo possono averci messo a dura prova, non dobbiamo spezzare i profondi sentimenti che ci legano” e terminò facendo appello ai “migliori angeli della nostra natura”.
L’orda di trumpisti che ha fatto irruzione a Capitol Hill ieri è un ammonimento che ci mette in guardia contro una simile e ostinata innocenza. I facinorosi erano infiammati dalle eterne bugie e teorie razziste complottiste uscite dalla Casa Bianca, ma non sono che gli ultimi in una lunga tradizione; una tradizione che è altrettanto americana di quella delle persone di tutte le razze che hanno lottato per una nazione tollerante, democratica, basata sull’uguaglianza. Non possiamo onorare a pieno quest’ultima se non affrontando le persone contro cui hanno combattuto.
Nel 1857, il Presidente James Buchanan ha avvallato la costituzione dello Stato del Kansas che legalizzava la schiavitù, scritta da una minoranza di pionieri bianchi, e redatta dopo un sanguinoso conflitto durato anni. Nel 1863, il governatore dello Stato di New York, Horatio Seymour, si rivolse ad una folla di bianchi giovani e vecchi che avevano bruciato degli edifici e linciato degli afro-americani nelle strade di Manhattan in protesta contro la leva per la guerra civile chiamandoli “amici miei”. Mentre da un canto il principale quotidiano della città condannava la violenza, dall’altro poneva una domanda in forma retorica: “C’è forse qualcuno che si meraviglia che i poveri rifiutino l’obbligo di partire in guerra?
Durante la Ricostruzione, Seymour e altri politici di spicco del partito fecero finta di non vedere o si schierarono apertamente a favore del Ku Klux Klan che terrorizzava gli elettori neri e combatteva contro le truppe dell’Unione inviate a loro protezione. Il rinato Kkk degli anni Venti del secolo scorso, terrore dei cattolici, ebrei e afroamericani, riuscì ad assumere il controllo del Partito repubblicano in diversi stati e circoscrizioni del Nord. Alla Convenzione democratica del 1924, una risoluzione tesa a condannare il gruppo violento con quasi quattro milioni di aderenti fu sconfitta, seppur per pochi voti.
La storia del moderno conservatorismo americano è piena di esempi simili, di movimenti bigotti che vengono aiutati delle autorità, politiche o altre. Capi di polizia e preti hanno appoggiato e diffuso i deliri populisti antisemiti di padre Charles Coughlin durante la Grande Depressione, così come hanno sostenuto i Consigli dei cittadini bianchi, con uomini d’affari e professionisti, che hanno guidato la resistenza al movimento per la libertà degli afro-americani nel Sud durante gli anni Cinquanta e Sessanta.
Nel 1964 Barry Goldwater vinse la nomina presidenziale per il partito repubblicano anche grazie alla campagna della John Birch Society (Jbs) , il cui fondatore aveva accusato il presidente Dwight Eisenhower di essere “un agente fedele e consapevole della cospirazione comunista”. Dopo decenni di declino, la Jbs è tornata a nuova vita quando Trump è stato eletto nel 2016. La sezione del Texas ha rapidamente raddoppiato i suoi appartenenti, incluso un certo numero di legislatori, sostenendo attivamente potenti politici di destra come il senatore Ted Cruz e il rappresentante Louie Gohmert.
La maggior parte dei repubblicani che ora pronunciano prevedibili parole di biasimo contro la sommossa, stanno attenti a non dire nulla che possa mettergli contro la massa dei sostenitori della rivolta. Da un rapido sondaggio effettuato da YouGov è emerso che quasi la metà degli elettori del Partito repubblicano ha appoggiato le azioni di coloro che si trovavano a Capitol Hill. E quando il presidente che aveva incitato a prendere d’assalto l’edificio ha convocato una riunione del Comitato nazionale repubblicano, secondo quanto dice il Washington Post è stato ricevuto da “un’ ...[continua]
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