Michael Kazin, già condirettore di “Dissent”, insegna storia presso la Georgetown University. Il suo libro più recente è What It Took to Win: A History of the Democratic Party.

Ho trascorso due anni della mia vita come rivoluzionario in un Paese in cui la maggior parte delle persone detestava l’idea stessa di uno sconvolgimento sociale. Non mi pento di ciò che ho fatto dal 1968 al 1970, anche se mi rendo conto di aver avuto un piccolo ruolo, anche se involontario, nell’accelerare il cammino della destra verso il potere nazionale. Le mie esperienze, tuttavia, mi hanno vaccinato contro il bacillo di una specie virulenta di fervore politico. Esse hanno contribuito a fare di me uno storico che considera fondamentale per il proprio lavoro la comprensione empatica delle decisioni prese dalle persone nel passato.
Definire una tendenza “estremista” significa condannarla. Ma andare agli estremi e tornarne indietro può essere un’esperienza entusiasmante e allo stesso tempo rassicurante. Almeno, per me lo è stata.
Sono cresciuto in un ambiente politico condiviso da molti accademici della generazione del baby boom, soprattutto ebrei laici. Da giovani adulti, negli anni Trenta, entrambi i miei genitori simpatizzavano per la sinistra marxiana: mia madre fece un viaggio in Unione Sovietica durante una delle sue vacanze universitarie; alle sue prime presidenziali, mio padre votò per Earl Browder, il candidato comunista nel 1936, e lavorò per un breve periodo come redattore della “New Republic” quando le sue posizioni coincidevano con quelle del Fronte Popolare. Ma quando si incontrarono, durante la Seconda guerra mondiale, i loro orizzonti ideologici non andavano oltre Franklin Delano Roosevelt. Divorziarono quando avevo solo due anni, ma entrambi rimasero liberal convinti fino alla loro morte, molti decenni dopo.
Ho iniziato a divorare le notizie politiche prima ancora di finire la scuola elementare. I titoli del “New York Times” sulle elezioni nazionali, le inaugurazioni presidenziali e simili occupavano un’intera parete della mia cameretta. Ho sentito parlare John Kennedy durante la corsa alle presidenziali del 1960 e ho indossato una delle spille della sua campagna elettorale a scuola tutti i giorni di quell’autunno.
Quando entrai al college, sei anni dopo, la mia fede liberal stava vacillando. Gli attivisti ispirati dal movimento per la libertà dei neri, la paura di un olocausto nucleare e il disgusto per l’escalation della guerra del Vietnam da parte di Lyndon Johnson mi avevano spinto verso sinistra. Durante il primo anno ad Harvard, fui eletto nei consigli direttivi dei Giovani Democratici e degli Studenti per la Società Democratica (Sds) del campus. Alla fine degli esami finali, mi ero dimesso dai primi e stavo dedicando tutto il mio tempo libero ai secondi.
Ma ho iniziato a definire le mie idee “rivoluzionarie” solo un anno dopo. A quel punto, il tradimento da parte dell’amministrazione democratica dei suoi stessi ideali dichiarati, sia in Indocina sia nelle comunità nere di tutta la nazione, fece sì che distruggere l’intero sistema imperialista sembrasse l’unica strada morale e razionale da percorrere. I miei compagni dell’Sds erano anche le persone più appassionate e intellettualmente persuasive che conoscessi.
La mia breve carriera di aspirante rivoluzionario -entusiasmante, ansiosa, a volte ridicola- è stata un’esperienza di vita.
Iniziò nell’agosto del 1968, alla Convention Nazionale Democratica di Chicago. Erano trascorsi due mesi dal mio ventesimo compleanno e mi recai in città come parte di una iniziativa organizzata dall’Sds per convincere i giovani che avevano fatto una campagna elettorale per il senatore Eugene McCarthy ad abbandonare ogni fiducia nel Partito Democratico. Avevamo programmato di chiedere loro: “Come potete sostenere un gruppo di politici che mandano gli americani a combattere e uccidere il coraggioso popolo del Vietnam, che vuole solo gestire il proprio paese?”. Una volta arrivato a Chicago, tuttavia, i “ragazzi McCarthy” erano difficili da trovare; l’imponente forza di agenti di polizia e membri della Guardia Nazionale che il sindaco Richard Daley aveva radunato per proteggere la convention aveva spaventato la maggior parte di loro.
Così, invece di impegnarci nella persuasione non troppo gentile che noi radicali avevamo pianificato, ci siamo seduti intorno ai “centri del movimento” nelle palestre delle scuole superiori e negli uffici sotterranei, parlando di politi ...[continua]

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