Iraq, Siria e Iran: ciascuna di queste nazioni, in principio, potrebbe frapporsi all’egemonia israeliana. Due di questi stati sono ridotti in macerie, mentre il terzo è nel caos. Ciò non può essere considerato un caso.
Con gli “Accordi di Abramo” [dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, raggiunta il 13 agosto 2020, per la normalizzazione delle relazioni tra i rispettivi paesi, Ndt] tra Israele e alcuni stati a maggioranza sunnita della regione, inoltre, i palestinesi sono stati messi in condizioni economiche disastrose, aggravandone ancora di più l’isolamento -in poche parole, è stata garantita la sicurezza di Israele. L’unico possibile grattacapo restano l’Iran e i suoi intenti; il suo regime teocratico continua a far paura, ma certo alla base del suo risentimento e della sua frustrazione ci sono cause reali. Il suo più eminente scienziato, Mohsen Fakhrizadeh, è stato assassinato con un’arma controllata via satellite in un attentato diretto da Israele; l’Iran ha subìto vari attacchi informatici; l’accordo di Barack Obama sul nucleare è stato fatto a pezzi dall’Amministrazione Trump che, peraltro, gli ha inflitto pesanti sanzioni economiche.
Ricapitolando, l’Iran si ritrova con un’economia a brandelli, una politica estera devastata e un prestigio regionale azzerato. La fazione della politica iraniana “liberal”, guidata dal Presidente Hassan Rouhani e dal suo Ministro degli Esteri, Mohammed Zarif, è stata costretta sulle difensive. Il loro sostegno popolare va scomparendo e le Guardie della Rivoluzione -avamposto dell’ala reazionaria- restano in attesa dietro le quinte. Nella situazione attuale queste ultime potrebbero anche ottenere una vittoria elettorale, cosa che certo avrebbe un impatto negativo sui delicati negoziati che il Presidente Biden dovrà sicuramente affrontare.
Né in Siria, né in Iraq vi è un potere saldo e, di conseguenza, le organizzazioni paramilitari sostenute da potenze straniere vi dilagano. Non solo l’Iran, ma anche gli Stati Uniti sono impegnati nella regione; certo il nostro personale militare e i nostri contractor non si trovano in Siria in viaggio di piacere. Il Presidente Biden ha, in un certo qual modo, peccato di ipocrisia quando si è detto “indignato” per gli attacchi paramilitari sostenuti dall’Iran. Ha preteso personalmente una “risposta proporzionata” contro un “piccolo sito militare” col probabile via libera -ci siamo capiti- del ministro degli esteri iraniano.
Mi verrebbe da dire: ma per piacere! Sono morte ventuno persone. Se questa reazione è davvero “proporzionata”, inoltre, allora non si è ottenuto un bel niente. Un bombardamento “proporzionato” è una sorta di “tit for tat”: è un’azione intrinsecamente simbolica e, dal momento che non ci sono spiragli per un cambio di regime e che è troppo presto per parlare di un armistizio, l’attacco del Presidente Biden è stato intrapreso senza alcuno obiettivo ben preciso. Per di più, gli Stati Uniti nemmeno sapevano con esattezza quale gruppo paramilitare avesse effettivamente sferrato gli attacchi alle sue forze. Comunque, gli alleati sunniti come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e l’Egitto -tutti stati che, di fatto, hanno concordato la rispettiva pace con Israele- ne sono rimasti indubbiamente soddisfatti. Sì, la Russia potrà risultarne infastidita, e anche la Turchia, per via dei curdi. Ma, ai fini della politica interna statunitense, questo bombardamento non potrà che giovare: i repubblicani potranno essere soddisfatti del fatto che l’America non venga più “presa per il naso”; il paese può (momentaneamente) superare una fase ...[continua]
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