Anche se buona parte della città si trova geograficamente sul suolo del vecchio continente, Istanbul rimane a tutti gli effetti una metropoli dal volto mediorientale. Per me ha sempre rappresentato la grande porta verso l’Asia. Ogniqualvolta venivo inviato in missione nelle repubbliche dell’Asia centrale, i cinque "stan", la sosta nell’immenso e sfavillante aeroporto dell’antica capitale dell’impero ottomano era d’obbligo per acciuffare il volo di coincidenza che mi portava nel ventre molle dell’Oriente, dall’altra parte del mar Caspio. Lo scalo di Istanbul, peraltro, offre anche i migliori collegamenti per il Caucaso meridionale, altro luogo dove ho viaggiato di frequente nelle mie peregrinazioni professionali. Al Caucaso sono legate anche tante immagini della mia memoria, oltre a un bagaglio di esperienza politica e culturale che mi porto con affetto e orgoglio sulle spalle. Non pensavo di ritornare in Azerbaigian. Baku è senza dubbio una bella città, ma conoscendola ormai bene non rientrava nella lista delle prossime mete dei miei viaggi. E invece eccomi di nuovo in pista. Un invito della Commissione di Stato per il Lavoro con la Diaspora dell’Azerbaigian mi porta un’altra volta sulle rive del Caspio. L’occasione è una tavola rotonda internazionale sugli sviluppi nel periodo post-bellico dopo il cessate il fuoco che nel 2020 ha concluso l’ennesimo conflitto per il Nagorno Karabakh. Sorvolo il mar Nero con una certa inquietudine. È lo stesso mare dove sulla costa settentrionale da quattro mesi la flotta della marina russa sta stringendo d’assedio Odessa, impedendo anche l’esportazione del frumento necessario per il fabbisogno alimentare di tanti paesi mediterranei ormai allo stremo, le stesse acque dove partono i missili di lunga gittata che dagli incrociatori russi martellano quotidianamente e incessantemente le principali città ucraine. A nord si combatte mentre a sud i combattimenti sono da poco terminati. Tacciono le armi sulle montagne del Caucaso, ma i nodi da sciogliere sono ancora molti.
Gli orrori della guerra in corso in Ucraina hanno fatto rapidamente dimenticare all’opinione pubblica europea quelli della guerra precedente. Eppure è trascorso solo un anno e mezzo dal conflitto che per 44 giorni ha insanguinato le vallate del Caucaso meridionale dove l’esercito armeno e quello azero si sono scontrati in accaniti combattimenti che hanno lasciato sul campo quasi settemila vittime. Oggetto del contendere era il Nagorno (Alto) Karabakh, una regione abitata in larga parte da una popolazione di etnia armena che in base al diritto internazionale appartiene all’Azerbaigian. L’accordo di cessate il fuoco del 1994 aveva messo fine alla prima guerra fra i due paesi garantendo di fatto l’indipendenza della piccola regione, grande quanto l’Umbria. Con questo accordo gli armeni avevano mantenuto il controllo anche delle sette province a stragrande maggioranza azera che circondano il territorio dell’Alto Karabakh. Il conflitto dell’ottobre del 2020 ha ribaltato la situazione. Oggi il governo di Baku ha ripreso possesso delle province precedentemente occupate dalle forze armene mentre un contingente militare russo presidia il Nagorno Karabakh a protezione della comunità armena che nel frattempo, a causa della guerra, si è dimezzata riducendosi a poco più di 30.000 persone. Lo status della regione, però, rimane sospeso. È una delle tante questioni che le due parti devono negoziare per giungere a un trattato di pace complessivo.
Approfitto del mio soggiorno a Baku per recarmi in visita nelle zone dei combattimenti a est del paese. Cinque ore di autobus tutto sommato agevoli lungo l’autostrada che, dopo avere costeggiato il Caspio, si divarica in direzione settentrionale verso l’area che fino a pochi mesi fa per gli azeri era off limits. Non si può non notare, ed è una piacevole sorpresa, l’intensa opera di rimboschimento portata avanti dalle autorità. Su entrambi i lati della strada spiccano ampie fasce di vegetazione arborea appena messa a dimora. Sono i boschi di domani su un terreno che, forse a causa del vento salato del Caspio, rimane desolatamente incolto. Man mano che ci si sposta verso nord, però, compaiono i campi coltivati, con frumento ed erba medica inframmezzati da timide colture di soia. E dove la terra è fertile crescono gli insediamenti urbani a fianco di una strada che nel corso del tragitto si è fatta irrimediabilmente più stretta e irregolare. Fino a poco tempo fa solo i militari si ...[continua]

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