Cari amici,
questo è ormai diventato un paese dove non è una buona idea ammalarsi o avere un incidente. I tempi d’attesa per le cure o per un posto letto nei reparti di Pronto soccorso sono troppo spesso così lunghi che le persone muoiono prima di poter essere prese in carico. Dietro la realtà di chi lavora nel Servizio sanitario nazionale in prima linea c’è una continua battaglia dei numeri che però serve solo a distrarci dalle conseguenze delle carenze e delle lungaggini sulle persone.
Mentre scrivo, è appena stato pubblicato un report del Royal College of Emergency Medicine (Rcem) in cui si dichiara che sono 23.003 le persone morte nel 2022 dopo aver trascorso almeno dodici ore nei Pronto soccorso in attesa di trattamenti o di un posto letto. Circa 2.000 morti al mese. Un dato sconvolgente per tutti coloro che hanno bisogno di cure e anche per chi lavora nel Servizio sanitario nazionale. A cosa è dovuto tutto questo se non a un cronico sottofinanziamento, a tredici anni di governo conservatore, alla mancanza di personale e all’assenza di un piano adeguato per la forza lavoro? Ma le circostanze disperate non bastano a evitare che lo stesso Nhse (Servizio sanitario nazionale d’Inghilterra) presenti cifre diverse e ricorra a calcoli diversi, come se questo potesse far meglio digerire il numero dei morti.
Il dottor Adrian Boyle, presidente dell’Rcem, ha dichiarato che i dati diffusi dall’Nhse sui pazienti che avrebbero trascorso oltre 12 ore nei Pronto soccorso, dopo che i dottori avevano deciso per la loro ammissione, sono “fuorvianti” e nascondono la vera entità dei tempi d’attesa, che in realtà costituiscono un problema endemico in tutto il Servizio sanitario nazionale. Peraltro, l’Nhse non rende certo facile dedurre queste cifre. Come riferito dal “Guardian”, le autorità sanitarie hanno cominciato a diffondere i dati solo dopo aver subìto pressioni da parte della Camera dei Lord e dall’Ufficio centrale di statistica, e anche dopo aver ottenuto quei numeri, c’è comunque bisogno di verificarli -perché in fondo cosa significano veramente i dati, se possono essere utilizzati per raggiungere conclusioni diverse?
Il “Financial Times”, la società di servizi “Lcp Health Analytics” e l’ente benefico di fact-checking “Full Fact” sono tutti arrivati a cifre molto simili alla stima pubblicata da Rcem, ovvero circa cinquecento morti alla settimana.
Non è che l’ennesimo esempio di quanto sia caduto in disgrazia il nostro adorato Servizio sanitario nazionale. Dunque, cosa significa oggi essere uno studente di infermieristica, prossimo all’inizio di una carriera in un’istituzione demoralizzata e in disgrazia?
Jenny, 21 anni, è una giovane donna vitale e piena di compassione che nel tempo libero fa arrampicata ed è un’ottima pasticciera. Dopo essersi occupata informalmente di un uomo affetto da Parkinson, ha trovato l’esperienza così gratificante che ha deciso di iniziare la formazione per diventare infermiera professionista. Mi ha detto: “Il solo fatto di riuscire a far sentire qualcuno più a suo agio in un momento di massima vulnerabilità per me era sufficiente. Di certo non ho scelto di fare l’infermiera per soldi”. E, d’altra parte, non poteva che essere così: i bei tempi degli investimenti nello staff infermieristico sono finiti da un pezzo. Le borse di studio per le infermiere sono state eliminate dai Tories nel 2017 e solo parzialmente reintrodotte nel 2019, quando venne stabilità l’irrisoria cifra di 5.000 sterline, appena sufficiente a coprire il costo della vita di un topolino, per non parlare delle tasse universitarie, il che significa che gli infermieri escono dalla loro formazione indebitati per almeno 21.000 sterline e in molti casi per molto di più. Jenny, per esempio, ha stimato che a fine corsi il suo debito ammonterà a 60.000 sterline.
Inevitabilmente, Jenny ha dovuto trovare altri lavori per mantenersi, scoprendo così che con un solo turno festivo come assistente sanitaria presso agenzie terze, tenendo conto del prestito, avrebbe guadagnato più di un’infermiera pienamente qualificata.
Non c’è da stupirsi che così tanti ospedali abbiano istituito un banco alimentare per il proprio personale. Questo peraltro significa che la stessa Jenny difficilmente rimarrà nella professione infermieristica. Non potrà permetterselo se vuole avere figli. Già durante il tirocinio, ha scoperto quanto forte sia la pressione cui si è sottoposti. “Molte cose passano inosservate”, dice. “Non c’è abbastanza p ...[continua]

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