Antonella Salomoni insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università della Calabria e Storia della Shoah e dei genocidi presso il Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà, Università di Bologna.

Il primo problema che vorrei sollevare riguarda la questione dell’analogia come scorciatoia. Un recente articolo sul centenario della Marcia su Roma pubblicato dal filosofo del linguaggio Jason Stanley, i cui lavori hanno acquisito una certa notorietà anche in Italia (ad esempio, Noi contro loro. Come funziona il fascismo, Milano, Solferino, 2019), si conclude con queste parole: “Il mondo ha il suo leader più apertamente fascista dai tempi di Hitler nella figura del presidente russo Vladimir Putin, che ha dimostrato perché non dobbiamo mai essere compiacenti con questa ideologia e le sue implicazioni. La guerra genocidaria di Putin contro l’Ucraina mostra che non è un attore pragmatico, ma piuttosto un fanatico che cerca di ricreare un impero russo perduto” (“One Hundred Years of Fascism”, in “Project Syndicate”, 28 ottobre 2022). Sono parole molto problematiche, che non posso condividere proprio per l’uso un po’ banalizzante dell’analogia. Al tempo stesso, l’intervento di Stanley solleva una questione molto rilevante (l’autore è intervenuto a più riprese, e con maggiore precisione, nel merito, ad esempio: “Putin’s Fascism”, in “Tablet”, 21 marzo 2022, con Eliyahu Stern), che ha bisogno di essere approfondita.
La lingua internazionale si è ormai arricchita da diversi anni di un nuovo termine: “rashism”, parola composta da “Russia” e “-scism”, per intendere il “fascismo russo”. L’espressione è ormai invalsa, utilizzata da scienziati sociali, analisti, politici, giornalisti, per denotare l’ideologia e le pratiche del regime putiniano tra fine del Ventesimo e inizio del Ventunesimo secolo. Persino Wikipedia la riporta in 37 lingue diverse (a partire dalla voce fondamentale in lingua ucraina; manca però, allo stato attuale, quella italiana). Ora, il fascismo russo è storicamente qualcosa di molto preciso: esiste un fascismo russo durante gli anni Venti, soprattutto nell’Estremo oriente; esiste un fascismo russo europeo; dal punto di vista storico, il fascismo russo ha le sue fonti, i suoi testi, i suoi ideologi. E però con il termine “rashism” dobbiamo confrontarci, non solo perché è entrato nell’uso, ma anche perché del fenomeno sono stati identificati una serie di elementi caratterizzanti. Ne elenco alcuni, quelli più frequentemente richiamati nel dibattito contemporaneo (a partire da un primo tentativo di sintesi di Ostap Kryvdyk, “Rasyzm”, in “Ukrainska Pravda”, 18 maggio 2010): l’idea di una missione speciale di civiltà attribuita alla Russia (una “via particolare”, un Sonderweg russo); la volontà di riportare la Russia al suo immaginario “splendore”, vale a dire a una politica di potenza; l’ultranazionalismo e lo sciovinismo nel modo d’interpretare le relazioni con i paesi “fratelli”, il che comporta anche una serie di azioni, compreso l’uso della forza militare come è avvenuto alla fine di febbraio del 2022; l'intolleranza nei confronti di altri popoli, in particolare slavi, ma non soltanto, visto che l’Asia centrale è un altro grande terreno di scontro; il ricorso all’ortodossia russa come dottrina morale, e tutta una serie di altri strumenti geopolitici di influenza, compresi i vettori energetici nelle relazioni con i paesi europei.
Il termine “rashism” è ormai adottato ufficialmente nella politica ucraina. La scorsa primavera, il Consiglio supremo dell’Ucraina, vale a dire il parlamento monocamerale, ha adottato la legge n. 7214, che riconosce la Federazione russa “come uno Stato terrorista con un regime neonazista totalitario”, e ha vietato la propaganda di tutto ciò che lo possa supportare, così come qualsiasi forma di “propaganda dell’aggressione contro l’Ucraina” (Verchovna Rada Ukrainy [parlamento monocamerale dell’Ucraina], 14 aprile 2022). Il Comitato della Rada per la politica umanitaria e dell’informazione ha poi riconosciuto il termine “rashism” come “definizione ufficiale dell’ideologia sviluppatasi nella Federazione russa, che oggi si manifesta nelle azioni militari dell’esercito russo in Ucraina e nell’atteggiamento della società russa nei confronti di questa guerra”. Ha inoltre invitato con forza “scienziati, esperti, giornalisti, politologi e l’intera società civile” a diffondere a livello nazionale e internazionale il termine perché sia recepito nel modo più ampio. Si è infine impegnato a favorirne “l’inserimento nei dizionari terminologici ufficiali della lingua ucraina” (Verchovna Rada Ukrainy, 12 maggio 2022). E lo stesso Volodymyr Zelensky, in una conferenza stampa dello scorso aprile, ha dichiarato che questo concetto entrerà ormai “nei libri di storia” (“Tsn-Televizijna Sluzba Novyn”, 23 aprile 2022).
In Occidente c’è un grande dibattito intorno al “rashism”, che si è accentrato soprattutto intorno ad alcuni interventi di Timothy Snyder, studioso molto noto a livello internazionale per i suoi lavori sull’Europa centrale e orientale, il quale in un editoriale del 19 maggio scorso sul “New York Times” ha utilizzato un titolo volutamente provocatorio: “We Should Say It. Russia Is Fascist”. Snyder era già intervenuto più volte in precedenza per spiegare cosa intendeva per “rashism”. In sintesi, si tratta di un culto della irrazionalità e della violenza che non è mai stato sconfitto come idea, anzi, esso ha tentato molti paesi europei prima che la Germania nazista fosse sconfitta sui fronti della Seconda guerra mondiale, e ne tenta ancora oggi diversi. In particolare, il fascismo è attualmente tornato proprio nel paese che combatte una guerra di distruzione contro l’Ucraina. Secondo Snyder, la Russia odierna soddisfa la maggior parte dei criteri che gli studiosi tendono ad applicare al fascismo. Fra gli altri, il culto di un leader specifico, Vladimir Putin; un culto dei morti, costruito soprattutto intorno alla Seconda guerra mondiale; un mito sull’età dell’oro, la grandezza imperiale, l’eredità del passato che deve essere ripristinata anche attraverso la forza, in particolar modo attraverso la guerra in Ucraina. Le analogie evocate da Snyder non si limitano però a questo. Ho trovato soprattutto interessante il fatto che abbia ricordato, anche se solo brevemente rifacendosi a suoi studi precedenti, l’occupazione dell’Unione sovietica da parte della Germania nel 1941, con il suo piano di sottrarre a ciò che era percepito come uno Stato ebraico il fertile suolo agricolo dell’Ucraina, riproponendo così il tema della guerra per fame. Per Snyder vi sono delle “somiglianze sorprendenti con la guerra di Putin” contro l’Ucraina, definita dal Cremlino come “uno stato artificiale”: “Oggi è la Russia a negare al mondo il cibo ucraino, minacciando la carestia nel Sud globale”. Qui in Italia si parla molto del problema energetico, però quello del grano è un problema enorme a livello globale. Come vedete, il ricorso all’analogia è frequente e può avere più applicazioni.
Come diversi studiosi dell’Europa orientale, dell’Ucraina e della Russia, ho cercato di fare la genealogia del termine “rashism”, e quello che ho trovato mi è parso interessante. Si può risalire con sicurezza almeno al 2008, alla guerra contro la Georgia, e ci sono ricercatori ucraini che rivendicano persino di averne fatto uso già negli anni Novanta. Ciò che però mi è parso soprattutto di grande significato è la lettura proposta da alcuni giornalisti in occasione della guerra del 2014 (annessione della Crimea e conflitto nel Donbass), con definizioni molto semplici ma di particolare efficacia, che vorrei brevemente citare.
La prima è del giornalista russo Denis Stiazkin, emigrato negli Stati Uniti nel novembre 2021 a seguito degli arresti e delle perquisizioni nel sistema dell’informazione. La sua definizione risale al 2014: “Il rashism è una quasi ideologia sviluppatasi nel territorio della Russia all’inizio del XXI secolo. è una miscela eclettica e controversa di imperialismo, sciovinismo da grande potenza, nostalgia per il passato sovietico e tradizionalismo religioso. Si oppone ai valori e alle istituzioni occidentali e liberaldemocratiche, come libere elezio-ni, diritti civili e libertà. In politica estera, è la logica di una posizione aggressiva e predatoria, nota come ‘raccolta delle terre russe’. Il rashism non è formalizzato accademicamente, esiste solo per adempiere ai compiti tattici del governo russo all’inizio del XXI secolo con l’aiuto di una massiccia propaganda quotidiana tra la popolazione del paese” (post dal titolo: “A proposito di rashism e di vatniki”, 18 marzo 2014; il termine “vatnik” è anch’esso di utilizzo recente per designare i propagandisti più accaniti del regime putiniano). Ho trovato questa semplice definizione davvero molto efficace, anche per il contesto in cui è stata proposta. La seconda lettura proviene da un altro giornalista, un ex dissidente molto noto degli anni Settanta e Ottanta (entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, visto che in Unione sovietica rinchiudere in un ospedale psichiatrico era una delle forme di penalità adottate di frequente contro gli oppositori). Si tratta di Aleksander Skobov, redattore di “Gra-ni.ru”, un portale di sostegno all’opposizione e ai prigionieri politici. La sua definizione, anch’essa del 2014, è la seguente: “L’obbiettivo dell’aggressione russa è punire l’Ucraina per la sua rivoluzione [naturalmente si fa riferimento alla rivoluzione di Euromaidan] e affermare il principio che possiamo punire i vicini per la loro disobbedienza, possiamo esigere obbedienza dai vicini. L’obbiettivo dell’aggressione russa è l’autoaffermazione con cui si dimostra al mondo intero, e prima di tutto a se stessi, che possono permettersi di rigettare qualsiasi restrizione legale accettata nelle relazioni internazionali, di rifiutare qualsiasi obbligo, e che non si può far niente contro questo. La spinta a una simile autoaffermazione guida sia la cleptocrazia al potere che le folle esultanti per l’annessione, non ha a che fare con la solidarietà nei confronti dei compatrioti [qui si allude alla questione dei “compatrioti” e “connazionali” spesso evocata da Putin come motore della politica interna ed estera russa]. Non si rallegrano per aver salvato i ‘compatrioti’ da mitiche miriadi di orde del ‘Pravyj Sektor’ [lett. ‘Settore destro’] che avanzano verso la Crimea [...], si rallegrano per aver abilmente ingannato gli stessi abitanti della Crimea. Quanto all’‘Occidente’, certamente esso vede l’inganno, ma non può far nulla. E si rallegrano dunque per aver ‘piegato’ l’Occidente” (‘La sinistra di Zimmerwald’, 22 marzo 2014). E potrei continuare, l’articolo è davvero molto interessante. Nel 2014, pochi mesi dopo averlo pubblicato su “Grani.ru” (il portale è stato bloccato dalle autorità russe nel 2019), Skobov ha subìto, a San Pietroburgo, un attentato piuttosto grave.
Che cosa si ricava da questi tentativi di definizione, che ovviamente sono difficili da accogliere per uno storico? Se ne ricava soprattutto una domanda: si può parlare di “rashism”? Esiste un fascismo russo? Può anche darsi, ma a mio avviso quello che soprattutto emerge è la presenza di un nuovo lessico, ormai consolidato, con il quale occorre confrontarsi.
Sono molti gli studi che cercano di capire la neo-lingua russa. In verità, ci siamo tutti trovati di fronte a questo problema già il giorno in cui abbiamo sentito definire la guerra come una “operazione militare speciale”, una “denazificazione”, una “demilitarizzazione”. Peraltro, ho ritrovato questo stesso lessico durante la Seconda guerra mondiale, ad esempio quando, al momento del patto Molotov-Ribbentrop, l’invasione della Polonia fu anch’essa definita una “operazione militare speciale”. E così, con un po’ di filologia, si può forse comprendere meglio cose che, nell’immediato, non erano apparse del tutto chiare. Ma accennavo a una neo-lingua, che mi pare rinviare a un percorso di de-democratizzazione. La Russia ha conosciuto, a partire dall’epoca di Gorbaciov, e poi ancora per tutti gli anni Novanta, un originale processo di democratizzazione, certo, molto complesso e anche tortuoso, fatto di molti zig-zag e passi indietro, soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta. Eravamo comunque di fronte a uno straordinario laboratorio di democrazia, vedevamo costruire la democrazia in modo rapido e intenso, malgrado le difficoltà, e in un contesto, diciamo, inaspettato, perlomeno nelle sue primissime fasi. Oggi, studiare questo corpus ci può aiutare a capire non tanto se si tratta di fascismo e se sono utili o efficaci le analogie, quanto piuttosto come ha fatto ad avviarsi, altrettanto rapidamente, un percorso di de-democratizzazione, in cui quell’enorme patrimonio è stato completamente dissipato. Il corpus linguistico a cui faccio riferimento è molto vasto e articolato, e mi limiterò a proporre un termine che trovo particolarmente inquietante: “valori tradizionali”. Quello dei “valori tradizionali” è infatti un enunciato che ormai ritroviamo quotidianamente, soprattutto nel corpus ufficiale, quello dello Stato, ad esempio il corpus legislativo. È un campo ancora parzialmente indagato, anche se ci sono già degli studi russi molto stimolanti che lo hanno posto al centro della ideologia putiniana. Farò ancora due esempi.
Il primo settembre 2022, in occasione della Giornata della conoscenza e durante la prima riunione del consiglio di amministrazione del Movimento panrusso dei bambini e dei giovani, che si è tenuta a Kaliningrad alla presenza di Putin (tale partecipazione è stata la scusa addotta per la mancata partecipazione di Putin ai funerali di Gorbaciov), il presidente di questa nuova associazione patriottica ha dichiarato che -proprio perché “oggi tutto il lavoro educativo nelle scuole russe guarda principalmente a rafforzare i valori spirituali e morali tradizionali”- “il nuovo anno è iniziato per tutti gli scolari con la rinascita della tradizione, con l’alzabandiera e l’esecuzione dell’inno nazionale della Russia”.
Ora, l’investimento che lo Stato ha fatto negli ultimi 15 anni nel mondo dell’istruzione (non saprei dire se partendo prima dall’alto o prima dal basso, probabilmente a partire dalla scuola dell’obbligo, dunque dai bambini) è stato davvero imponente. Tale investimento è stato accompagnato da un attacco, che non esiterei a definire clamoroso, contro la libertà accademica a livello universitario.
Un secondo esempio, anch’esso abbastanza recente, è il discorso pronunciato da Putin il 9 maggio 2022, durante la celebrazione della vittoria nella Grande guerra patriottica con la tradizionale parata sulla Piazza Rossa. In questa occasione, tra le altre cose, Putin ha dichiarato: “Non rinunceremo mai all’amore per la Patria, alla fede e ai valori tradizionali, ai costumi dei nostri antenati, al rispetto per tutti i popoli e le culture. A quanto pare, invece, in Occidente si è deciso di annullare questi valori millenari. Tale degrado morale è diventato la base per le ciniche falsificazioni della storia della Seconda guerra mondiale, l’incitamento alla russofobia, l’elogio dei traditori, la derisione della memoria delle loro vittime, la cancellazione del coraggio”, ecc.
Si tratta di due documenti all’apparenza molto semplici, diciamo ordinari. L’espressione “valori tradizionali” è entrata in uso nella comunicazione politica dopo i messaggi di Putin all’Assemblea federale del 2012 e del 2013. E qui le cose diventano invece particolarmente serie, perché essa è stata in seguito ufficialmente sancita con la diffusione di un elenco dei “valori spirituali e morali tradizionali russi” (è così che vengono definiti), apparso per la prima volta in un documento aggiornato della cosiddetta “Strategia per la politica nazionale di Stato”. Si tratta di un documento del dicembre 2018 molto importante, proprio perché definisce una strategia statale, e che è stato ripreso, con alcune modeste variazioni, nella “Strategia per la sicurezza nazionale” del 2021, e ancora nel progetto “Fondamenti della politica statale per la conservazione e il rafforzamento dei valori spirituali e morali russi tradizionali”, presentato dal Ministero della Cultura all’inizio del 2022. Quest’ultimo documento ha provocato una discussione pubblica molto animata, con grandi contestazioni per l’irrigidimento nel modo di proporre i “valori”; la discussione fu interrotta a metà febbraio proprio a causa dell’ondata di critiche ed è rimasta poi in sospeso per lo scoppio della guerra. Che cosa emerge dalla lettura di questi documenti? Sono date indicazioni precise su quali sono le nuove minacce per il paese, e qui veniamo alla questione del panico riguardo al tema, molto rilevante, della sovranità. In particolare, vi si sostiene che la Russia è circondata da nemici che cercano di violarla in vari modi: dalla pressione militare alla diffusione di idee estremiste.
Nel 2021 sono state riconosciute come minacce alla sicurezza l’attività delle società o corporazioni transnazionali su Internet, la “occidentalizzazione della cultura” (è una espressione ufficiale), l’imposizione al popolo di valori morali “estranei”, la distruzione della lingua russa attraverso l’adozione di un linguaggio triviale nei media e nelle performance pubbliche (l’investimento fatto in questi ultimi anni sulla lingua russa è davvero imponente e molto restrittivo). Insomma, appare evidente una radicalizzazione nell’analisi e nelle forme di contrasto previste. Tutto ciò precede di poco lo scoppio della guerra e, a mio avviso, ne costituisce una base ideologica rilevante. Nel 2015 era stata formulata l’ipotesi di una pressione permanente dell’Occidente al fine di svalutare i successi della Russia in ambito militare, in politica estera, nell’economia e nella cultura. E dunque si era previsto di agire soprattutto su due piani: da un lato, contrastando gli Stati Uniti e i suoi alleati, i loro eserciti e servizi di intelligence; dall’altro, ostacolare i promotori delle “rivoluzioni colorate” con azioni giustificate alla luce di quelle che vengono definite “strategie di sicurezza”. Nel 2021, quindi a distanza di sei anni, e prima dello scoppio della guerra, queste idee vengono riprese, ma a un nuovo livello qualitativo, in una spirale -come dicevo- di radicalizzazione. Si ritiene infatti necessario combattere non solo contro gli estremisti che minano l’ordine costituzionale (il tema dell’estremismo è ormai, per certi versi, superato), ma anche contro coloro che contribuiscono ad ampliare l’influenza dell’Occidente perfino dal punto di vista culturale ed etico.