Domanda trabocchetto: quanti sono i paesi euro-asiatici, vale a dire gli Stati il cui territorio è diviso fra Europa e Asia? Le mie reminiscenze scolastiche di geografia mi hanno sempre indotto a dire due, Russia e Turchia, ma non tenevano conto di un evento epocale che ha sconvolto la storia contemporanea: il crollo dell’Unione Sovietica. Vi è adesso, infatti, un terzo paese a cavallo di questi due continenti, il Kazakistan. Per anni ignorato dalle cronache della nostra carta stampata, questo Stato, grande nove volte l’Italia, si estende anche ad ovest del fiume Ural, indicato per convenzione come confine orientale del continente europeo. Fino a poco tempo fa ai paesi dell’Unione Europea il Kazakistan e l’Asia Centrale apparivano come una zona grigia di scarso rilievo. Dopo la recente impennata dei prezzi di gas e petrolio si è scatenata la corsa fra le potenze mondiali all’accaparramento delle risorse di idrocarburi che hanno portato questa regione al centro dell’attenzione. Diversificare i fornitori e le rotte dei combustibili fossili ha assunto un’importanza strategica per l’Unione Europea che cerca di ridurre la dipendenza dal grande vicino russo tornato con Putin ai fasti di un impero che non nasconde le ambizioni di esercitare un controllo sempre più stretto e vincolante sul mercato dell’energia. Diversificare le rotte, però, è anche nell’interesse delle cinque repubbliche dell’Asia Centrale costrette ad esportare i propri idrocarburi attraverso gli oleodotti ed i gasdotti russi.

Nel giugno di quest’anno, sotto la presidenza tedesca, i paesi dell’Unione Europea hanno adottato una strategia comune per l’Asia Centrale. Si tratta di un documento di una ventina di pagine che delinea gli impegni europei verso i paesi della regione definendo le politiche e le linee di azione incentrate sulle priorità del dialogo politico, dell’istruzione, dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo, con l’obiettivo di approfondire le relazioni e sviluppare un parternariato sempre più stretto, accompagnato da un consistente pacchetto di aiuti economici.
Quello che interessa all’Unione, però, è soprattutto la sicurezza degli approvvigionamenti energetici che è direttamente collegata alla stabilità della situazione politica delle cinque repubbliche schiacciate a nord-ovest e ad est da due ingombranti superpotenze, Russia e Cina, e a sud da due vicini alquanto scomodi e riottosi come Iran ed Afghanistan. Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan hanno un recente passato comune nell’Unione Sovietica che si manifesta ancora oggi sia in termini politici che culturali. In tutti i paesi gli ex segretari o dirigenti del Partito Comunista si sono trasformati in presidenti della repubblica all’indomani dell’indipendenza piovuta come un fulmine a ciel sereno nel 1991. In tutti i paesi le elezioni sono state fortemente contestate e chiaramente insoddisfacenti dal punto di vista del rispetto degli standard internazionali. In tutti i paesi la mentalità nomadica, che fa perno sul clan e sulla famiglia allargata, si è combinata con quella sovietica fondata sul culto della personalità e la sovrapposizione fra Stato e partito. In tutti i paesi corruzione e povertà sono quasi endemiche con le disuguaglianze sociali che crescono a vista d’occhio.
Astana è un’altra città da aggiungere alla lista di quelle da dimenticare che proprio perché è da dimenticare, sono certo, è destinata a rimanere irrimediabilmente impressa nella mia memoria. Da dieci anni è divenuta la capitale di uno Stato fra i più estesi al mondo che conta solo quindici milioni di abitanti. E’ stata letteralmente inventata dal padre padrone del Kazakistan, il presidente Nursultan Nazarbaev, che ha deciso di trasferire il governo del paese in una posizione più centrale rispetto alla vecchia capitale Almaty, situata sul confine meridionale. Al piccolo nucleo preesistente, così, sono stati aggiunti in poco tempo nuovi quartieri dagli ampi viali con, a lato, imponenti edifici che in uno sfarzoso stile neoclassico che spesso scade nel kitsch ospitano i vari ministeri e gli uffici governativi. Non mancano, ovviamente, i nuovi monumenti che osannano il presidente e le magnifiche sorti future del Kazakistan. Formalmente siamo in una democrazia, ma i cambiamenti recentemente apportati alla costituzione consentono a Nazarbaev di rimanere presidente a vita con un parlamento i cui membri, dalle elezioni generali dell’agosto scorso, appartengono ad un unico partito, Nur Otan, che, guarda caso, è quello del presidente. “Hanno esagerato, non volevano che andasse a finire in questo modo” mi sento ripetere da alcuni diplomatici. Il Kazakistan ha una tradizione consolidata di elezioni truccate. Le ultime avrebbero dovuto rappresentare il punto di svolta per la reputazione internazionale del paese. La macchina della falsificazione, però, era talmente oliata ed efficiente che si è messa in moto da sola, senza che dall’alto venisse un ordine preciso. Dicono che Nazarbaev sia rimasto imbarazzato all’annuncio dei risultati finali e forse è davvero così. Oggi rivolge aperture all’opposizione offrendo, comunque, una partecipazione in parlamento, ma la frittata è fatta. Prima la stabilità e la crescita economica: democrazia e libertà civili arriveranno di conseguenza. E’ questa la strategia dell’occidente che piace anche ai nuovi-vecchi gerarchi. Si tratta di capire per quanto tempo può continuare visto che a quindici anni dall’indipendenza di cambiamenti democratici ne sono avvenuti davvero pochi.

Il Kazakistan si è trasformato in un vero e proprio supermercato delle risorse energetiche non rinnovabili. Petrolio, gas, carbone, uranio: non manca nulla. Basta venire da queste parti, prendere il carrello, rifornirsi e passare alla cassa. Fino a pochi anni fa i contratti erano decisamente vantaggiosi per le società straniere. Oggi i kazaki si sono fatti più scaltri e impongono clausole più stringenti. Ne sa qualcosa l’italiana Eni, impelagata nello sfruttamento del giacimento di Kasciagan nel Mar Caspio, considerato uno dei più vasti e promettenti di recente scoperta. Persino il Presidente del Consiglio Romano Prodi ha dovuto muoversi venendo in visita ufficiale per risolvere le questioni ancora pendenti. Gli affari sono affari; non una parola, quindi, su democrazia e diritti umani come tutti i capi di governo che l’hanno preceduto. “Ci siamo addormentati comunisti e ci siamo risvegliati capitalisti” ci racconta il vice-ministro dell’energia quasi chiedendo venia se le cose non funzionano ancora come dovrebbero. Le persone al potere sono sempre le stesse ed è impossibile cambiare da un giorno all’altro la mentalità sovietica. L’Unione Europea ha fatto dell’istruzione uno dei temi centrali nelle relazioni con l’Asia Centrale. Migliaia di studenti kazaki avranno ogni anno la possibilità di studiare nelle università europee. Si punta, quindi, sulla prossima generazione per il cambiamento. Intanto si fa finta di niente o si gira la testa dall’altra parte.

In Kazakistan si trovano i luoghi di due fra le più grandi catastrofi ambientali del pianeta causate dall’uomo. Ad ovest il Mare d’Aral sul confine con l’Uzbekistan, fino agli anni Cinquanta il quarto lago più esteso del mondo, si è spezzato in due tronconi dopo che buona parte delle acque dei due immissari Amu Darya e Sir Darya sono state deviate e prelevate per la coltivazione intensiva del cotone. La superficie si è così ridotta del 75% lasciando un deserto di sale che ha rovinato la vita alle 60.000 persone che campavano di pesca e dell’industria del pesce e sta rovinando ancora la vita a chi abita nelle zone circostanti. Il vento della steppa, infatti, solleva polvere di sale e di residui tossici che ha prosciugato l’aria, ridotto i giorni di pioggia e sta provocando malattie intestinali, respiratorie e cancro a gola ed esofago. Una tragedia ad uso e consumo dei turisti che accorrono per fotografare il letto bianco dell’ex mare con sopra appoggiate, come d’incanto, le carcasse dei pescherecci in secca. Ad est la città di Semey, sconosciuta ai più con questo nome ma nota all’opinione pubblica con il vecchio e malfamato nome di Semipalatinsk, deve ancora fare i conti con l’eredità infestante del fallout radioattivo delle cinquecento bombe atomiche sperimentate per quarant’anni nel vicino poligono nucleare. Furono le imponenti manifestazioni popolari a mettere fine nel 1989 ai test atomici dell’armata rossa. Oggi però gli ospedali non sono in grado di far fronte all’emergenza sanitaria conseguente. E la radioattività non si può fotografare.

Almaty, 1300 chilometri più a sud. La vita torna a sorridermi. Capisco perché il personale diplomatico detesta la nuova capitale e preferisce ancora la vecchia. Ci sono dieci gradi in più ed in questa stagione non guastano. Ad Astana risiede il potere politico, ad Almaty quello economico. Le ambasciate sono divise a metà fra le due capitali, ma l’eventuale trasferimento ad Astana viene vissuto come un incubo. Temperature invernali fino a meno quaranta gradi, pochi svaghi e nessuna attrazione culturale. Ad Almaty incontro Galymzhan Zhakiyanov, il dissidente più noto, che dopo tre anni e mezzo di prigione ha pensato bene di abbandonare la politica attiva. Oggi guida un’organizzazione non governativa chiamata “Società civile”. Malgrado gli anni di carcere e la persecuzione politica, Zhakiyanov non dimostra una particolare avversione verso il regime. Sembra rassegnato, quasi domato. Sostiene che, comunque, non c’è una grossa differenza tra la nuova e la vecchia generazione. Concorda sul fatto che anche in assenza di brogli il partito del presidente avrebbe vinto le elezioni, seppure in misura più contenuta. Probabilmente Zhakiyanov si aspettava un sostegno maggiore dai paesi occidentali. Non considerava il fatto che troppa enfasi sui diritti umani avrebbe potuto pregiudicare le relazioni con il Kazakistan e l’accesso alle sue risorse.

Il tempo di spendere gli ultimi tenghe, la moneta del posto, per qualche disco di musica tradizionale kazaka e poi partenza verso Bisckek, capitale del Kirghizistan, con una macchina della delegazione dell’Unione Europea. Con me c’è l’eurodeputato tedesco di origine turca Cem Ozdemir, relatore del parlamento europeo per l’Asia Centrale. Il russo è ancora la lingua franca della regione, ma gli idiomi locali appartengono al ceppo turco. Quando l’inglese non basta Cem ricorre alla lingua dei genitori e qualche volta aiuta. Trecento chilometri di desolazione tra la terra incolta e l’oscurità che ci avvolge, rendendo meno crudo il paesaggio. La pioggia battente, che sulle alture del Korday si trasforma in neve, acuisce, però, il senso di solitudine che, forse, provarono anche i mercanti in quella che anticamente era la via della seta. La radio in modulazione di frequenza improvvisamente tace in assenza di ogni segnale. Sulle onde medie si captano voci lontane in lingue affascinanti e sconosciute che sembrano provenire dalle viscere della terra. Ci appisoliamo sui sedili cullati dai lievi sussulti.

Il Kirghizistan è considerato dalle altre quattro repubbliche come il bambino indisciplinato, il “Pierino” della classe, perché ha osato mettere in discussione il principio che sanciva la nomina di membri della nomenklatura sovietica a presidenti a vita dei nuovi Stati indipendenti. Le manifestazioni di piazza dell’opposizione nel marzo del 2005 dopo elezioni farsa, infatti, sfociarono nella defenestrazione del presidente Askar Akaev, costretto alla fuga a Mosca. Fu chiamata la “rivoluzione dei tulipani” che seguiva quella “delle rose” in Georgia del 2003 e quella “arancione” in Ucraina nel 2004. Più di un brivido percorse la schiena degli altri autocrati dell’Asia Centrale che temevano un effetto domino. Nei due anni seguenti Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan hanno creato una specie di cordone sanitario attorno al Kirghizistan per impedire che il seme della rivolta democratica oltrepassasse i confini. In realtà per due anni il paese è sprofondato in una profonda crisi istituzionale che ha visto su posizioni contrapposte il nuovo presidente, Kurmanbek Bakyev, il primo ministro ed il parlamento. Il presidente kazako Nazbaraev ha avuto buon gioco nell’additare il vicino come un pessimo esempio di incertezza ed instabilità da evitare, associando democrazia a confusione e disordine. Oggi la situazione pare normalizzata con Bakyev, anche lui uomo del passato regime, che ha ottenuto i poteri quasi assoluti del predecessore.

Bisckek, anche se non si può definire bella, è, ad ogni modo, una città gradevole. Il traffico è disciplinato con tutte le strade, piccole o grandi che siano, alberate e tanto verde pubblico. Quando si sviluppò a fine Ottocento con l’arrivo dei Russi furono piantati ovunque pini, abeti, pioppi neri e bianchi, betulle, olmi ed aceri, come rimedio al terreno instabile. Attorno svettano, abbondantemente innevate, le cime della catena del Tian Scian. Le piazze sono le classiche spianate in stile sovietico. La capitale kirghisa vanta ancora un vasto repertorio di reliquati monumentali della mitologia comunista che vanno dalla statua alla patria, a quella all’armata rossa, all’indipendenza, ai lavoratori, alla vittoria, alla liberazione e chi più ne ha più ne metta. Resiste anche una grande statua di Lenin, spostata dal luogo dove si trovava originalmente, che nessuno ha avuto il coraggio di abbattere. Mentre in Kazakistan l’accoglienza era cordiale ma formale e, per certi versi, obbligata, qui l’ospitalità è calorosa e sincera, dovuta anche al fatto che il paese, privo delle risorse dei vicini, è tagliato fuori dalle rotte dei potenti, vivendo dimenticato, quasi isolato fra le splendide montagne che costituiscono più del 90% del territorio. In Kazakistan erano sempre i numeri due a riceverci in edifici imperiali, rivestiti di marmo, nuovi di zecca che denotano la crescente ricchezza. In Kirghizistan sono i numeri uno in palazzi bisognosi di urgente manutenzione dai serramenti approssimativi, i parquet logori ed irregolari ed i tappeti lisi e sfilacciati. Capita anche di essere ricevuti, quasi sequestrati, da chi non avremmo dovuto incontrare, in particolare dal Sottosegretario alla Giustizia che, sostituendosi a nostra insaputa al ministro, vuole a tutti i costi spiegarci la riforma delle procedure di registrazione delle imprese per aprire un’attività commerciale e trasformare l’economia kirghisa nella più attrattiva del mondo, in un colloquio assurdo che sembra mutuato dal copione di una commedia di Ionesco.
L’Unione Europea, da queste parti, avrebbe l’occasione di farsi ascoltare se solo volesse. Il guaio è che il Kirghizistan non interessa a nessuno. Eppure il germe della democrazia qui potrebbe trovare terreno fertile, attecchire e mettere radici contaminando la terra arida dell’Asia Centrale dove vecchie e nuove piste si incrociano prospettando scenari di non facile lettura.
Lungo la via della seta i tessuti di valore sono stati sostituiti da merci altrettanto preziose che arrivano in occidente attraverso un fitto reticolo di tubature. Lungo le nostre vie, nella vecchia Europa, il traffico procede regolare.