Il sig. A. R., di nazionalità ucraina, affetto da sordità, è giunto in Italia nel 2015 (quindi ben prima dell’inizio della guerra russo-ucraina) e ha ottenuto il rilascio, da parte della Questura di Verona, del primo permesso di soggiorno per “richiesta asilo”, poi rinnovato in qualità di permesso di soggiorno per protezione sussidiaria. Da aprile del 2022 risiede in Verona presso un “alloggio sociale” comunale e, in quanto non udente, è titolare di pensione di invalidità civile. Il nostro amico ha una moglie ucraina anche lei non udente e una figlia di cinque anni nata in Italia. Per ottenere l’assegno di natalità per la bimba ha dovuto chiamare in causa l’Inps, vincendo, perché il nostro Istituto previdenziale non ottempera alle direttive comunitarie in materia di previdenza sociale. Stesso problema si è presentato con il reddito di cittadinanza, dapprima riconosciuto ma poi richiesto indietro in conseguenza (testualmente) della “revoca/decadenza dal reddito/pensione di cittadinanza... per la seguente motivazione: “Mancanza del requisito di residenza: non ha risieduto in Italia gli ultimi due anni in modo continuativo e non ha risieduto in Italia per almeno dieci anni”.
I due anni di residenza erano ovviamente facilmente dimostrabili, ma per la richiesta del requisito relativo ai dieci anni di residenza si è presentato ricorso al giudice del lavoro perché, a nostro avviso, tale previsione configura una discriminazione indiretta per contrasto con le norme europee che impongono la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni sociali (direttiva 2004/38 e Regolamento 492/2011) e inoltre il requisito della “residenza protratta” viola l’art. 3 della Costituzione, perché non ha alcun collegamento con il bisogno delle persone.
Quando venne approvato il reddito di cittadinanza, la ratio della misura era così descritta: “è istituito, a decorrere dal mese di aprile 2019, il Reddito di cittadinanza, di seguito denominato «Rdc», quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro…”. La provvidenza prevista dal legislatore ha inteso, pertanto, possedere una natura mista: da un lato configurare una misura di assistenza sociale al reddito, dall’altro perseguire obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. Vero è che tra i requisiti previsti dalla norma (art. 2), oltre a quelli reddituali e di cittadinanza (o permesso di soggiorno di lungo periodo, come il caso del nostro amico), c’era anche quello di essere residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo.
Nel caso di specie, il sig. A. R. risultava soddisfare tutti i requisiti richiesti per l’accesso alla provvidenza richiesta al momento della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, con l’unica eccezione della residenza sul territorio italiano per almeno dieci anni.
L’Inps, stante l’assenza di tale requisito, ha quindi revocato la prestazione, chiedendo la restituzione delle somme versate e rifiutando per il futuro la concessione del beneficio. Senonché la previsione della residenza decennale non continuativa produce l’effetto di delimitare in modo irragionevole il bacino degli stranieri potenzialmente beneficiari del reddito di cittadinanza. E infatti l’art. 29 della direttiva 2011/95/UE rubricato “Assistenza sociale” prevede l’assoluta identità delle prestazioni di assistenza sociale fornite ai cittadini rispetto a quelle garantite ai beneficiari di protezione internazionale: “Gli Stati membri provvedono affinché i beneficiari di protezione internazionale ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione, adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione”.
La giurisprudenza della Corte di giustizia è ormai costante nell’affermare che il livello di prestazioni sociali accordate ai beneficiari di protezione internazionale deve essere lo stesso di quello offerto ai cittadini dello Stato membro.
Ora, non vi è dubbio che il reddito di cittadinanza debba essere ricondotto alla categoria “assistenza sociale”, in ragione dei seguenti elementi: il finanziamento da parte della fiscalità generale; l’erogazione da parte dell’ Inps; l’attribuzione in caso di risorse insufficienti a far fronte a bisogni alimentari e, pertanto, l’accesso per nuclei familiari in condizioni di estrema fragilità e di grave bisogno; l’estensione a opera dell’Ente previdenziale della prestazione anche ai beneficiari di protezione internazionale oltre i limiti della normativa di legge. Ebbene, se è vero che per discriminazione indiretta si intende l’utilizzo di un criterio apparentemente neutro, che pone però gli appartenenti al gruppo protetto in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, nel caso di specie il fattore che viene in rilievo è quello della nazionalità, considerato quale possibile fattore di discriminazione dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, dall’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 43 del T.U. immigrazione. Mentre l’obbligo di parità di trattamento è quello imposto dagli artt. 26 e 29 direttiva 2011/95/UE. La residenza anche frazionata decennale è richiesta a tutti i richiedenti il reddito di cittadinanza; trattasi, tuttavia, di una condizione solo all’apparenza neutra: lo straniero ha, infatti, maggior difficoltà a conseguire tale requisito rispetto al cittadino italiano.
Per sua stessa definizione il richiedente la protezione internazionale è un soggetto che proviene da un Paese (nel caso di specie, l’Ucraina!) ove correva un rischio effettivo di subire un grave danno: ha, pertanto, vissuto una parte consistente della sua vita non in Italia. Al contrario, il cittadino italiano, con più probabilità, è nato e vissuto in Italia.
Il Tribunale di Bergamo, nel sollevare sul punto questione pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia Ue, ha evidenziato le risultanze delle statistiche Istat “in base alle quali nel 2010 i titolari di protezione internazionale soggiornanti in Italia erano 56.402; nel 2020 sono stati 128.033, con un incremento di 71.991 pari al 56% dei rifugiati attualmente presenti. Ciò significa che più della metà dei rifugiati attualmente in Italia non ha il requisito di residenza decennale e non può quindi accedere al Rdc. Al contrario solo lo 0,48% del totale degli italiani non ha risieduto in Italia negli ultimi dieci anni a fronte del 56% dei rifugiati attualmente presenti sul territorio nazionale. Dal Report Istat 2020 risulta che la quota di persone considerate a rischio povertà tra i cittadini italiani è pari al 18,9% del totale, sale al 24% per i cittadini comunitari e al 36% nel caso degli extra-comunitari” (Trib. Bergamo, sez. lav., ordinanza ex art. 267 T.F.U.E. R.G. 907/2022). In altre parole, il requisito dei dieci anni impedisce al beneficio di raggiungere quanti sono realmente in stato di povertà; altresì, impedisce l’accesso alla prestazione soprattutto agli stranieri, che in effetti risultano beneficiari della misura in una percentuale molto inferiore a quella degli italiani in condizione di povertà.
D’altra parte sono gli stessi dati pubblicati dall’Osservatorio reddito di cittadinanza dell’Inps, aggiornati a ottobre 2022, a confermare la circostanza di cui sopra: i nuclei familiari beneficiari di reddito/pensione di cittadinanza nel mese di settembre 2022 nell’89% dei casi sono di cittadinanza italiana; tale percentuale risulta drasticamente abbattuta per i richiedenti extra-comunitari in possesso di un permesso di soggiorno, pari al 7%, e per i richiedenti cittadini Ue, pari al 4%.
Come suggerito dai numeri, l’introduzione del requisito di residenza decennale ha avuto quale esito prevedibile la drastica limitazione dell’accesso al reddito di cittadinanza proprio dei nuclei familiari stranieri, rispetto ai quali l’incidenza della povertà -che la misura si propone di contrastare!- risulta maggiore. Ciò risulta confermato dai dati statistici del report Istat “…i componenti delle famiglie con almeno un cittadino straniero presentano un rischio di povertà o esclusione sociale sensibilmente più elevato rispetto a chi vive in famiglie di soli italiani. Vivere in famiglie con almeno uno straniero espone a un rischio di povertà e grave deprivazione doppio rispetto a quello di famiglie di soli italiani…”.
Ebbene, il nostro Legislatore nazionale non gode di una totale discrezionalità nello stabilire i criteri selettivi dei beneficiari di una certa prestazione sociale, essendo necessario rispettare il principio di ragionevole correlabilità. Tale principio è stato ritenuto dalla Corte costituzionale come indispensabile filtro per verificare la ragionevolezza dei criteri selettivi posti dall’ordinamento per l’accesso alle prestazioni sociali. Con sentenza n. 137/2021, la Corte costituzionale ha ribadito che “il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei beneficiari delle stesse prestazioni sociali purché le sue scelte rispettino rigorosamente il canone di ragionevolezza; trattandosi di provvidenze a tutela dei soggetti fragili, infatti, le eventuali limitazioni all’accesso devono esprimere un’esigenza chiara e razionale, senza determinare discriminazioni”.
Nel caso del reddito di cittadinanza, il criterio selettivo è costituito dal requisito del c.d. “radicamento territoriale”, cioè dalla presenza per un periodo sufficientemente lungo sul territorio nazionale. Lo scopo del requisito di residenza dovrebbe essere quello di garantire il preventivo radicamento territoriale dello straniero o comunque il legame reale con il territorio ove la prestazione viene erogata.
La Corte costituzionale in più occasioni ha ribadito che il requisito del radicamento territoriale può fungere da ragionevole criterio selettivo solamente in relazione alle provvidenze non correlate a situazioni di bisogno o di disagio e dirette, quindi, a soddisfare finalità eccedenti il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona, solo se risponde a un criterio di proporzionalità e ragionevolezza (Corte cost. n. 172/2013, n. 222/2013, n. 168/2014, n. 44/2020).
Il requisito della residenza decennale non risulta né ragionevole né proporzionato (eccessivo) in quanto lo scopo del reddito di cittadinanza è proprio l’inclusione e l’inserimento del soggetto in un tessuto sociale e lavorativo e, pertanto, è irragionevole che lo scopo della misura costituisca anche il requisito per ottenerla; la residenza non integra di per sé un criterio affidabile per attestare un effettivo collegamento con lo Stato che eroga la prestazione; la norma considera la mera residenza pregressa, omettendo di valorizzare tutti gli altri possibili elementi di collegamento. Come evidenziato dallo stesso Giudice delle leggi, si deve escludere che la preventiva residenza possa ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità, essendovi altri elementi ben più sintomatici della probabile permanenza nel territorio italiano per il futuro, come l’iscrizione all’anagrafe, un contratto di locazione di una certa durata, l’iscrizione dei figli al ciclo scolastico, la ricongiunzione nello Stato membro con i familiari.
L’irragionevolezza del requisito della residenza decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza si coglie ancor più in riferimento ai titolari di protezione internazionale, se solo si considera che  i titolari di protezione accedono al pubblico impiego a parità di condizioni con il cittadino italiano, indipendentemente dagli anni di residenza in Italia.
Si è occupata della discriminazione nei confronti dei cittadini dell’Ue anche la Corte d’Appello di Milano, che ha ritenuto di sollevare la questione di costituzionalità, “atteso che il requisito di lungo residenza appare irragionevole (per mancanza del requisito di ragionevole correlabilità) e discriminatorio nei confronti dei cittadini Ue”.
I sopra descritti dubbi di legittimità costituzionale e di compatibilità con il diritto europeo della disposizione di legge nazionale sono stati sollevati anche dal Tribunale di Napoli. Pure la commissione presieduta da Chiara Saraceno nel mese di ottobre 2021, aveva messo in evidenza il problema della necessità di ridurre drasticamente gli anni di residenza italiana per poter accedere alla prestazione, al fine di raggiungere i nuclei familiari più poveri. L’inerzia dello Stato italiano non poteva essere ignorata dalle Istituzioni europee: con nota del 15/02/2023, la Commissione ha comunicato di aver avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia, ritenendo che il requisito dei dieci anni di residenza necessario per accedere al reddito di cittadinanza non sia in linea con il diritto europeo.
Il carattere discriminatorio della condotta è direttamente discendente dal fatto che l’Ente previdenziale pubblico, nel limitarsi ad accertare un dato formale (la residenza decennale non continuativa nel territorio dello Stato italiano), ha eluso illegittimamente la verifica circa l’esistenza di un effettivo e reale grado di integrazione del richiedente. Infatti possiamo affermare senza timore di smentita che se A. R. fosse stato un cittadino italiano avrebbe certamente ottenuto e mantenuto la prestazione familiare in esame.
A completamento, occorre ricordare che, secondo quanto dichiarato dalla Cgue nella sentenza della causa C-103/88 (c.d. Fratelli Costanzo), non soltanto il giudice nazionale è tenuto a ottemperare all’obbligo di disapplicare la normativa interna in contrasto con quella dell’Unione europea, ma anche l’amministrazione pubblica di uno Stato membro, in cui è evidentemente incluso l’Inps; pertanto, l’Ente previdenziale avrebbe violato palesemente la direttiva n. 2011/95/UE, artt. 29 e 26.
Con A. R. ci parliamo… con il traduttore di Google (santo traduttore): già, perché il nostro, essendo sordo, ha imparato pochissime parole italiane e comunica con il resto del mondo tramite il cellulare che funge da traduttore. La prima udienza del processo ha visto, nel silenzio generale, il Giudice del lavoro digitare veloce sul cellulare, passarlo a A. R., che rispondeva velocemente, e così via. Un’udienza surreale… ma in cui la tecnologia ha permesso quello che la burocrazia (recuperare un traduttore ufficiale che conoscesse al contempo la lingua ucraina ed il linguaggio dei segni) avrebbe impedito. Vediamo come andrà a finire.