Gaza è stata giustamente descritta come una prigione all’aperto e i palestinesi sono stati provocati oltre la loro sopportazione. Furiosi per l’abbandono da parte degli alleati regionali dopo l’Accordo di Abramo del 2020, che ha posto le basi per le relazioni diplomatiche tra gli Stati arabi e Israele, i palestinesi in generale e i gazesi in particolare hanno dovuto fare i conti con l’incessante espansione degli insediamenti israeliani, le continue vessazioni e violenze da parte dei coloni, una velenosa coalizione di governo israeliana dominata da ebrei ortodossi e fanatici sionisti e il ricordo sempre più sbiadito di negoziati falliti. Il mondo si stava dimenticando dei palestinesi. Temevano di non essere più importanti, ma ora lo sono di sicuro.
Il 7 ottobre 2023 Hamas, la Jihad islamica ed Hezbollah hanno iniziato a lanciare 4.500 missili contro Israele, a cinquant’anni dalla guerra dello Yom Kippur, conflitto che rappresentò una catastrofe per Israele e si concluse con un accordo con l’Egitto.
Quasi duemila persone sono già state uccise, molte delle quali bambini e anziani. Sono stati denunciati stupri diffusi e omicidi indiscriminati. Sono stati catturati centinaia di ostaggi civili, alcuni sono stati giustiziati e altri rischiano la vita. Nulla di tutto ciò può essere giustificato. Né si può giustificare la rinuncia all’etica umanitaria a favore di un antimperialismo romantico e sbagliato. Coloro che hanno aggredito Israele non hanno fatto altro che provocare l’assedio di Gaza e un feroce contrattacco che costerà caro ai comuni cittadini. Dall’estero si condannerà sicuramente la risposta di Israele, ignorando ciò che l’ha causata, mentre i teocrati autoritari brinderanno all’umiliazione del tanto decantato apparato di intelligence del loro nemico.
Gli israeliani sono spaventati, e ne hanno ben donde. Che i peccati di Hamas siano stati esagerati o meno dalla stampa occidentale, che i discorsi sul “ricacciare gli ebrei in mare” siano solo parole vuote, di certo non lo sono la brutalità settaria della Jihad islamica, di Hezbollah e del regime antisemita di Teheran. Il pregiudizio insito negli osservatori diventa evidente quando coloro che normalmente sono inorriditi dal trattamento disumano di persone innocenti improvvisamente glorificano questa violenza. Non è ipocrita, per chi non subirà mai le conseguenze di questa situazione, esultare per l’agressione di Hamas? Chi crede nei valori umanitari non può sostenere movimenti terroristici e antidemocratici come la Jihad islamica, che in passato aveva già posto fine a qualsiasi prospettiva di pace con inutili attacchi missilistici. Peraltro, se davvero esiste la famosa “guerra giusta”, certo questa non prevede che si trattino i civili come soldati. Prenderli in ostaggio e giustiziarli, poi, significa adottare tattiche naziste.
Lo slogan di chi sostiene il diritto dei palestinesi a difendersi “con ogni mezzo necessario” non è una strategia, ma una farsa. Dovremmo prendere queste parole alla lettera? Il fine giustifica davvero i mezzi? Forse è meglio chiedersi che cosa giustifichi il fine, dal momento che, dopotutto, un fine non è altro che il prodotto dei mezzi impiegati per raggiungerlo. Il resto è solo metafisica o parole vuote. Fino a quando non sarà dimostrata una correlazione plausibile tra fini e mezzi, questa espressione resterà solo una speculazione filosofica, una manipolazione della realtà, o una pia speranza. Ammettiamolo: la macchina da guerra è stata messa in moto non tanto per ottenere la liberazione del “popolo” gazese, quanto per gli interessi personali di Hamas, Jihad islamica, Hezbollah e Iran.
Tutti costoro temono la pace regionale non perché minacci Gaza, ma perché mette a rischio la loro posizione geopolitica. All’indomani dell’attacco preventivo, l’Iran può ora guardare gli Stati Uniti in preda all’affanno di fornire più aiuti a Israele, costretti a ridurre la spesa per l’Ucraina, rafforzando così l’alleato russo.
Nel frattempo, Hamas e i suoi alleati possono godersi lo scompiglio che hanno provocato, che potrebbe durare una generazione. Sicu ...[continua]
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