Lo scorso 25 ottobre, nell’ambito della XII edizione del 900fest, si è tenuta una sessione dal titolo “L’Europa muore o rinasce a Kyiv?” con Marco Boato e Fabio Levi coordinati da Simone Zoppellaro, che prendeva spunto da un testo di Alexander Langer scritto durante la guerra in Bosnia. Pubblichiamo a seguire brani dell’intervento di Marco Boato.

Marco Boato
[…] È stato detto che Alex non ha scritto libri, ma centinaia di articoli. In realtà un libro Alex l’ha pubblicato in vita, ormai è esaurito, si intitola Vie di pace, Frieden schließen. Sono oltre quattrocento pagine, di cui su sua richiesta ho scritto io la prefazione italiana e che abbiamo pubblicato, sempre su sua richiesta, come Verdi del Trentino nelle nostre “Edizioni Arcobaleno”. Raccoglie scritti, interventi, riflessioni, proposte, in italiano o in tedesco, non tradotte, cioè non è un libro con la traduzione a fronte. Quello che era stato da lui scritto in tedesco è stato pubblicato in tedesco e quello che era scritto in italiano è rimasto tale. Anche perché in Sudtirolo la logica dei Verdi sudtirolesi (ispirati da Langer) era che non si facesse la traduzione, che nelle riunioni ognuno parlasse nella propria lingua, italiano, tedesco, più raramente ladino (Alex si era messo a studiare anche il ladino), e però tutti avevano il diritto-dovere di capirsi reciprocamente. Quindi era importante che, in una terra bilingue, almeno quelli impegnati in quell’impresa politica, fossero bilingui. 
Questo è l’unico vero libro scritto da Alex mentre era in vita, nel 1992, ed è un testo ricchissimo. Certo, sarebbe stato bello pubblicarlo con una casa editrice più importante, rispetto a quella di noi Verdi trentini. Vi leggo soltanto il sommario: “Rapporto dall’Europa. Nuovi movimenti e vecchi conflitti: tra autodeterminazione e cooperazione, federalismo e nazionalismo (lui era un federalista convinto), convivenza e razzismo”. Lo stesso sommario, ovviamente, è scritto in copertina anche in tedesco.
Molti poi sono i testi sulla pace. Oggi si usano molto le parole “pacifista”, “pacifismo”. Le usava talvolta anche Alex, ma non le amava molto. Lui preferiva parlare di “operatore di pace”, “costruttore di pace”. Ce l’aveva -e l’ha scritto- contro il “pacifismo gridato”, espressione che aveva mutuato dal cardinale Martini. Ci sono delle frasi stupende contro il “pacifismo gridato” rispetto a chi invece sa costruire le condizioni di pace, prevenire i conflitti e cercare di risolverli. 
Un altro dei suoi temi era la proposta, portata avanti negli ultimi anni della sua vita, dei “Corpi civili di pace”. Una questione ancor oggi di enorme attualità, per la quale si era impegnato a partire dagli anni Novanta. Lui era contrario alla dissoluzione della ex Jugoslavia; avrebbe auspicato piuttosto una sua rifondazione. Nel 1990, quindi all’inizio di quel processo, lui ci propose di fare un Consiglio federale nazionale dei Verdi in una piccolissima porzione della ex Jugoslavia, cioè Portorose, in Slovenia, vicino al confine con l’Italia. Con questa iniziativa, voleva dare un segno, enfatizzare che noi Verdi eravamo contrari alla disgregazione della ex Jugoslavia, che poi si è trasformata nella catastrofe che abbiamo conosciuto. 
Ricordo che, quando siamo arrivati, ci siamo trovati in un albergo deserto, dove c’eravamo solo noi. Eravamo lì per discutere su come fare per evitare i separatismi; invece i camerieri sloveni ci tampinavano tavolo per tavolo, a pranzo e a cena, mentre mangiavamo, dicendoci: “Aiutateci a ottenere la separazione della Slovenia”, che è stata poi la meno dolorosa. Ripeto, Alex era contrarissimo a questo processo, perché temeva profeticamente quella crisi drammatica, che poi effettivamente si è verificata. 
Comunque, c’è un tema che ricorre nella sua riflessione e nella sua pratica, e più che il pacifismo, è la nonviolenza. Questa è la dimensione principale di Alex. 
Lui è entrato in Lotta Continua nel 1970. Come ricordava Fabio, Alex aveva prima esaminato quello che c’era nel panorama politico della cosiddetta nuova sinistra. Aveva avuto contatti con altri, ma poi, con i suoi amici e compagni di allora in Sudtirolo, aveva scelto Lotta Continua. Un gruppo che voleva essere rivoluzionario e nella sua impostazione rivoluzionaria, bisogna dirlo, non c’era certo il terrorismo, a cui siamo stati sempre contrarissimi, ma c’era comunque anche la violenza politica. Io non ho mai amato le canzoni del “canzoniere di Lotta Continua”. Ce n’erano un paio di terrificanti, secondo me: “La violenza, la rivolta, la violenza, la rivolta”, e poi anche “È l’ora del fucile”. Erano canzoni all’epoca molto popolari, ma pessime, a mio parere.
Ebbene, Alexander Langer è sempre stato un uomo nonviolento, anche negli anni delle lotte politiche e sociali più dure a cui ha partecipato. All’inizio non è stato ideologicamente un “nonviolento”, ma nella prassi sì, sempre. Poi, dall’inizio degli anni Ottanta lo è diventato anche culturalmente, cioè ha abbracciato esplicitamente la nonviolenza di Gandhi, e di Capitini in Italia. Quindi più che un pacifista -anche se l’espressione qualche volta nei suoi scritti ricorre, come ho già detto- è sempre stato soprattutto un nonviolento, aderendo poi anche ufficialmente al Movimento nonviolento, che, dopo la Perugia di Capitini, ha da molti decenni sede a Verona.
Ma arrivo al punto cruciale che dà il titolo a questa sessione. 
I suoi scritti, presenti nel volume che ho citato, si fermano al 1992; ci sono anche molti testi per il disarmo, contro la guerra, contro le armi. Testi bellissimi. Questo libro ce l’hanno ormai in pochi, ma io me lo porto sempre appresso, perché lo considero stupendo, proprio perché è stato preparato da lui. Non è qualcosa che abbiamo scritto noi suoi amici, dopo la sua morte. 
Però, da un certo momento in poi, c’è una scelta che lui compie di fronte alla tragedia dell’ex-Yugoslavia in generale e della Bosnia e dell’assedio di Sarajevo in particolare. Alex a un certo punto -io dico ghandianamente- non ha più accettato di rimanere passivo davanti alla violenza della guerra dei serbi e dei serbo-bosniaci contro i musulmani, a Sarajevo e in tutta la Bosnia. Pochissimi giorni prima di morire, è andato a Cannes, con una delegazione di parlamentari europei che aveva riunito (non solo Verdi, ma radicali, democratici, eccetera), per parlare con Chirac, che da pochi mesi aveva, ahimé, sconfitto Mitterrand alle elezioni presidenziali. Tra l’altro, tra le prime cose fatte appena eletto presidente della Francia, Chirac aveva ripreso le sperimentazioni militari a Mururoa, che invece Mitterrand aveva sospeso.
Comunque Alex, il 26 giugno del 1995, con questo gruppo di europarlamentari, tutti tra virgolette “pacifisti” (nel senso appunto di una nonviolenza non passiva), si reca da Chirac. Era il turno semestrale di presidenza francese della Comunità Europea, e a Cannes c’era la riunione dei capi di Stato e di governo. Alex, con la delegazione da lui guidata, chiede di essere ricevuto prima dell’inizio dei lavori. All’incontro spiega: “Non potete più assistere passivamente alla carneficina che sta succedendo in Bosnia e all’assedio di Sarajevo” (che durava ormai da tre anni).
Un mese prima, il suo amico Selim Beslagic, sindaco di Tuzla, dopo la strage di settantun ragazzi nella piazzetta del centro Tuzla, durante la festa di Primavera, aveva spedito un telegramma all’Onu, all’Europa e allo stesso Langer. Il contenuto era drammatico: se voi assistete passivamente a quanto ci stanno facendo questi fascisti (quei fascisti erano i comunisti serbi), che ci stanno massacrando, allora siete loro complici.
Alex aveva sentito in un modo fortissimo questa chiamata in causa da parte di quello che era un suo caro amico. Selim Beslagic era il sindaco di una città, Tuzla, che grazie a lui era rimasta multietnica anche durante la guerra. Alex l’aveva portato, insieme a Renzo Imbeni, a Strasburgo, a Bolzano e a Bologna. Beslagic era rimasto entusiasta di questi incontri. Ma poi, una volta tornato a Tuzla, c’era stata quella strage di giovani. E così aveva scritto quel telegramma durissimo: “Se non reagite, siete complici”. 
Per questo Alex era andato da Chirac, quale capo di stato e di governo della Comunità Europea di allora, con questo messaggio: “Noi vi chiediamo di intervenire in Bosnia con un intervento di polizia internazionale”. Un intervento armato, proporzionato, per porre fine all’assedio di Sarajevo che durava da oltre tre anni e alle stragi che continuavano. Chirac, che aveva appunto appena ripreso gli esperimenti militari nucleari a Mururoa, gli ha fatto una sorta di predica da pacifista: non si può distinguere i buoni dai cattivi, non possiamo intervenire... Alex è rimasto sconvolto da questa risposta. Era insieme a una sua collega europea, pacifista anche lei, e si erano dovuti sorbire la predica da Chirac mentre era in corso la carneficina fatta dai serbi in Bosnia. Come ricorderete, a ottobre poi ci fu finalmente l’intervento “di polizia internazionale” e in pochi giorni tutto finì. Poi arrivarono gli accordi di pace di Dayton, precari, discutibili, ma ancora oggi in vigore. Se non c’è più stata la guerra, è anche perché c’è stato quell’intervento militare e ci sono stati quegli accordi. 
Ma in quell’ottobre Alex non c’era già più. 
Alex muore il 3 luglio 1995. L’11 luglio c’è la carneficina di Srebrenica: ottomilaquattrocento uomini bosniaci vengono consegnati dalle truppe dell’Onu, che li avevano sotto tutela, a Mladic e Karadzic, che li sterminano nel giro di due o tre giorni.  Questo è successo una settimana dopo la morte di Alex. 
Lui non l’ha vista quella carneficina, ma se voi rileggete i suoi scritti di allora, l’aveva previsto, l’aveva scritto, potrei citare testualmente le sue frasi. L’aveva previsto e aveva messo in guardia sul fatto che le truppe dell’Onu non dovevano limitarsi a tutelare solo se stesse e non fare nulla in difesa dei bosniaci. 
Un anno e mezzo fa “una città”, rivista a cui anche Alex era affezionatissimo, ha pubblicato un mio breve intervento, in cui ho ricordato alcune di queste cose. Perché improvvisamente, dopo l’aggressione armata della Russia, tutto il pacifismo italiano si è dichiarato contrarissimo a sostenere militarmente la difesa dell’Ucraina. Certo, bisogna sostenere l’Ucraina diplomaticamente, economicamente, umanitariamente, socialmente, ma, siccome è stata aggredita da un criminale di guerra che si chiama Putin, è nostro obbligo difenderla e sostenerla. Questa è la sostanza di quello che Alex aveva detto sulla Bosnia, dopo che per anni aveva pur dato vita a innumerevoli iniziative nonviolente per cercare prima di prevenire e poi di disinnescare il conflitto.
E guardate che non si è trattato di un colpo di mano, o di testa. Alex aveva fatto la Carovana europea della pace; con Marijana Grandits, Mao Valpiana e tanti altri aveva dato vita al Forum di Verona per la pace e la riconciliazione. Tutte le scelte nonviolente, di convivenza, di risoluzione del conflitto, di dialogo, le aveva tentate per anni. Si era molto speso per i Balcani, per fortuna non da solo.
Però, a un certo punto si è reso conto che tutto questo non risolveva la situazione e che intanto il conflitto e la violenza continuavano ad aggravarsi e le vittime a moltiplicarsi.
Una settimana prima di andare a Cannes, Alex mi aveva telefonato a casa, a Trento. Lo ricordo come se fosse oggi, e mi ha detto: “Marco, io ho intenzione di fare questo, però so che creerò un po’ di scompiglio. Tu cosa ne pensi?". Perché lui aveva anche questo stile: aveva le sue idee, la sua determinazione, la sua autonomia, ma consultava i suoi amici. Dopodiché faceva le sue scelte. Ma come ha fatto con me quel giorno, suppongo l’abbia fatto anche con qualche altro. Mi ha chiesto cosa ne pensassi. Io gli ho risposto che ero totalmente d’accordo. Gli ho detto che la trovavo una scelta gandhiana, perché un nonviolento di fronte alla violenza non può restare passivo, altrimenti diventa complice della violenza. 
Concludo con una citazione, che non so quanti di voi ricordino. 
Già nel 1993, quindi due anni prima, per la precisione il 6 luglio del 1993, praticamente due anni prima di Cannes, Alex aveva fatto una intervista radiofonica, credo per Radio Radicale. La trascrizione è nello splendido libro che Edi Rabini e Adriano Sofri hanno curato, Il viaggiatore leggero, con una selezione dei principali scritti di Langer. Il pezzo si intitola: “Uso della forza militare internazionale nell’ex Yugoslavia?”. 
Vi leggo la parte finale. “Ecco perché occorre una credibile autorità internazionale, che sappia minacciare e anche impiegare -accanto agli strumenti assai più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica, dell’incoraggiamento civile, dell’integrazione economica, dell’informazione veritiera- accanto a tutto questo, la forza militare. Esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli Stati, se qualcuno spadroneggia con la forza delle armi nel suo quartiere o nella sua valle e nessuno si muove per fermarlo, in poco tempo scoppia una generale guerra per bande, in cui tutti sono obbligati ad armarsi e a cercare di farsi valere con la forza. I più forti sono i serbi, ma non è una colpa, altri sarebbero altrettanto atroci se ne avessero la forza.     
E dunque -aggiunge Alex, siamo nel luglio del ’93, 6 luglio-, è altamente tempo di allargare il mandato, la consistenza e l’armamento delle forze dell’Onu nella ex-Yugoslavia, includendovi l’ordine per ora di far arrivare effettivamente gli aiuti umanitari ai loro destinatari, anche aprendosi la strada con le armi, di far cessare gli assedi alle città, anche bombardando postazioni di armamenti pesanti o tagliando vie di rifornimento di armi e di materiali agli assedianti, di impedire bombardamenti aerei facendo rispettare il divieto di sorvolo...”. 
E conclude -ripeto: siamo nel 1993, andrà da Chirac nel giugno del 1995-: “Un intervento militare di questo tipo, immaginabile solo con un mandato e una direzione Onu alle spalle, proprio per garantire la necessaria imparzialità e caratterizzazione di ‘operazione di polizia internazionale’, potrebbe essere anche affidato a forze Nato, magari insieme ad altre forze. Forse sarebbe sufficiente la seria minaccia di usare la forza per ottenere una svolta sul piano militare. A volte basta che la polizia si faccia vedere effettivamente determinata per fermare le bande”. E ancora: “La minaccia o l’effettuazione reale di un intervento militare hanno senso solo se non resteranno l’unico tipo di impegno internazionale. Ci sarà bisogno di un forte e molteplice impegno internazionale, a cominciare da un solido e generoso programma di ricostruzione del dialogo e della democrazia. Ma se si continuasse a escludere per le più svariate ragioni il ricorso alla forza internazionale, si continuerebbe a lasciare il libero campo ai più forti e meglio armati, con il rischio di sterminare i gruppi più deboli (i musulmani bosniaci oggi, altri domani), di costituire un precedente pericolosissimo in Europa, di moltiplicare le guerre nell’area e di approfondire ancora di più il fossato tra Est e Ovest, tra mondo cristiano e Islam, tra cristiani occidentali e orientali. Questo non deve succedere”. 
Ecco, io sono contrario a parlare a nome di Alex a trent’anni dalla sua morte, ma credo sia sufficiente leggere quello che lui ha detto e scritto, per poi ciascuno trarne le proprie conclusioni. Grazie.