E’ passato molto tempo da allora: dieci anni dalla morte di padre Davide, un po’ meno da quella imprevista e improvvisa di padre Balducci. Ma il tempo dei loro incontri e delle loro speranze condivise sembra davvero remoto e quasi inimmaginabile.
L’espressione ‘ultimi preti’ usata da Davide mi sembra perfettamente adeguata, a molti anni di distanza. Figure come le loro non sono più pensabili, in giorni come i nostri. E’ come se l’accelerazione della storia avesse tolto di mezzo, sia pure con reverente giudizio, dei testimoni.
Di quale mai testimonianza si trattasse, è oggi difficile dire. l termini che subito affiorano sono inadeguati: dire speranza, sensibilità religiosa, onestà, coraggio, libertà di giudizio e insieme perfetta obbedienza, generosità verso gli altri, carità certo, ma non basta. Non erano i soli a praticare queste virtù. Avevano, sicuramente, caratteri forti, erano personalità d’eccezione. Ma in che cosa? In quale prospettiva, qual era il loro itinerario verso Dio, in cui iscrivere la loro esperienza di vita religiosa?
E perché l’espressione di Davide, non dettata da un momento di malinconia, sembra cogliere il segno?
Ho conosciuto bene entrambi, in diversi periodi della mia vita. Cerco di offrire il mio contributo per fornire qualche elemento per la ricostruzione delle loro figure e forse qualche chiarimento per la comprensione del loro tempo.
Ho conosciuto padre Davide a Milano, nel primo dopoguerra. Era allora, insieme con padre Camillo De Piaz, suo sodale e in un certo senso mentore discreto, uno dei tre o quattro serviti della Corsia dei Servi, posta accanto all’imponente e fredda chiesa di San Carlo al Corso, una grande chiesa che sembrava costruita per accogliere le preghiere e la carità della grande borghesia milanese. E solo di quella, con una discriminazione di classe che veniva come imposta dalle strutture dell’ambiente architettonico, dalla rigida monumentalità della navata, dallo stile neoclassico. E soprattutto dalla sua dislocazione, nel corso Vittorio Emanuele, una delle strade più ricche di Milano. La Corsia era nata in quegli anni, grazie a padre Davide: era un locale piuttosto piccolo, cui si poteva accedere anche dal retro, dal Corso Matteotti, già corso del Littorio, altra via della ricchezza lombarda. L’entrata era stretta, vi era un cortile affiancato dall’abside, ma si poteva entrare in corsia anche da un porta che dava sul corso. Qui, Davide aveva allestito una libreria, di libri di cultura religiosa, e qui venivano preparate le edizioni della Corsia dei Servi, che avrebbero fatto conoscere testi di spiritualità e di proposta religiosa, anche di vivace polemica, come la famosa lettera del cardinal Suhard, tradotta da padre Camillo.
Già durante la guerra, la Corsia aveva pubblicato un giornale clandestino, L’Uomo, in cui scrivevano Mario Apollonio, professore di letteratura italiana e di storia del teatro all’Università Cattolica, Angelo Romanò, poi dirigente Rai, lo scrittore Luigi Santucci, detto Lillo, pochi altri. Oltre, naturalmente, a Padre Davide e, talvolta, padre Camillo, la cui pigrizia era già allora fonte di rispettosa ironia. L’Uomo aveva continuato per breve tempo le pubblicazioni, alla fine della guerra. Erano tutti giovani ed erano stati antifascisti; alcuni, come Davide e Camillo avevano preso parte attiva alla resistenza. Da preti, in quanto preti, ed erano ancora antifascisti, da preti e in quanto preti. Credo che per molti, anche per me, sapere e vedere ogni giorno come si potesse essere del tutto preti e antifascisti, sia stata una grande esperienza, una sorta di nuova conciliazione più forte e vera della conciliazione fra il fascismo e la chiesa che ci era stata indicata c ...[continua]
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