I giovani di Otpor, i minatori di Tamnava e la popolazione serba hanno vinto. I lavoratori di altre miniere di Kolubara hanno sostenuto e si sono uniti alla direzione e ai colleghi di Tamnava, la divisione principale. Quando, lo scorso mercoledì, ho avuto modo di parlare coi minatori, era evidente la loro determinazione a sfidare e disobbedire alla polizia.
C’era qualche centinaio di poliziotti all’entrata della miniera, nell’edificio della direzione e nei boschi circostanti. Tuttavia non hanno impedito alla moltitudine arrivata dalle altre città della Serbia in macchina, autobus, in camion o a piedi, di unirsi alla protesta dei minatori.
Niente era stato organizzato. La gente aveva spontaneamente deciso che era importante che più gente possibile andasse a Tamnava. Come altri, anch’io mi sono rivolta ai poliziotti e le loro risposte mi hanno confuso -non sapevano per quale motivo fossero stati mandati lì, ma certamente non avrebbero usato la forza, a prescindere dagli ordini ricevuti.
C’erano almeno 10.000 persone coi minatori in sciopero quella notte, e “Siamo forti, nessuno può sconfiggerci” si poteva sentire ovunque.

Già da maggio, fino al giorno delle elezioni, il 24 ottobre, la polizia ha schedato circa 2500 membri di Otpor, di età dai 12 ai 25 anni. Sono stati aperti dei dossier su di loro e da allora anche il solo indossare una maglietta col pugno chiuso è diventato illegale. Nonostante tutto questo, il messaggio “Gotov je” (è finito) ha assunto un potere straordinario fino a diventare un giuramento solenne.

Un milione di persone si sono riversate nel centro di Belgrado giovedì scorso, solo da Cacak sono arrivati in 10.000, addirittura con scavatrici a vapore. Questa macchina ha fatto strada ai dimostranti e probabilmente è merito suo la presa del palazzo della Radiotelevisione della Serbia.
In modo abbastanza imprevisto, tutto è stato facile.
I pezzi del sistema -dalla polizia ai media- sono caduti a uno a uno, come pere troppo mature, capitolando come gli sconfitti nel campo di battaglia.
Non eravamo consapevoli di quanto fosse tutto marcio.

E tuttavia la gente non poteva credere che fosse tutto vero, era confusa. Qualcuno si stropicciava gli occhi per i gas lacrimogeni, ma la maggior parte per assicurarsi che non fosse un sogno.

La mattina dopo, in questa nuova e diversa Serbia, è tranquilla. I giovani, pieni di adesivi con la scritta “gotov je” ed esausti per la festa che è andata avanti tutta la notte a suon di buona musica, si stanno incamminando verso casa. Portano con sé le bandiere e gli striscioni di Otpor; non hanno alcuna intenzione di gettarli o darli via.
Li guardo passare con un nodo in gola. Solo loro sono senza colpe e responsabilità per tutte le guerre, le vittime e le ostilità causate da Slobodan Milosevic e il suo regime negli ultimi 13 anni.
Gli altri, noi tutti, sono stati coinvolti. E ora abbiamo il dovere di spiegare loro cosa è potuto succedere sotto i nostri occhi. Di fronte a questi giovani noi siamo responsabili di Srebrenica e di Slobodan Milosevic.
Natasa Kandic