Leggo nell’editoriale, pieno di frasi perentorie e discutibili, che chi non vede la relazione tra quello che sta avvenendo in Kosovo ed Auschwitz è in malafede. Mi sembra un’affermazione molto forte e offensiva. Per esempio, mi sembra offensiva nei confronti di quegli esponenti delle comunità ebraiche, alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento, che si sono rifiutati di fare questa assimilazione. Forse sbagliano, forse no, bisognerebbe rifletterci attentamente. Rifiutare di farsi risucchiare da una accecante sicurezza quando si tocca un tasto così drammatico come Auschwitz. L’unicità della Shoah, di cui sono convinto, non vuol dire che mai più potrà accadere ciò che è successo. E quindi non vuol negare l’importanza di vigilare su tutte quelle brutalità, massacri che possono essere l’inizio di una nuova Auschwitz. Affermare l’unicità, fino ad oggi, della Shoah significa avere sempre a mente che cosa è stata, il meccanismo gigantesco che ha innescato, e soprattutto quale fosse il suo obiettivo finale dichiarato. Far sì che sulla faccia della terra non ci fosse più un ebreo. Avete presente che cosa vogliono dire queste parole?
Avete presente che lì il problema non era buttare fuori gli ebrei dalla Germania, o dalla Polonia, ma cacciarli dalla faccia della terra? Bene, se avete presente questo -se abbiamo presente questo- prima di usare la parola Auschwitz come fosse un prodotto pubblicitario, pensateci non una, non due, ma un miliardo di volte. Così come quando si vuole assimilare uno dei tanti macellai, che purtroppo infestano la faccia della terra, a colui che è stato il promotore del tentativo di cancellarci dalla faccia della terra, provo un sentimento in cui l’insofferenza verso lo sfrondone storico, causato non so bene da cosa, forse da iperideologismo, si unisce alla meraviglia di fronte al fatto che questa tesi è stata fatta propria da persone il cui equilibrio, la cui capacità riflessiva credo fossero intaccabili (potrei dire a prova di bomba, ma non mi sembra il caso...). La risposta a questa logica che ha molto a che fare con la propaganda dei quartieri generali e molto poco con l’analisi storica, potrebbe darla ancora una volta la magnifica Hannah Arendt, con "Le origini del totalitarismo", dove si evidenzia la differenza tra il sistema totalitario e la dittatura, oppure la rilettura di qualche buon saggio sulla seconda guerra mondiale, dove le differenze tra la Germania hitleriana e la Serbia attuale risulterebbero evidenti. Ma forse la maniera migliore per mettere a tacere improbabili raffronti storici, è riportare alcune cifre che traggo dall’interessante dossier uscito il 25 aprile con Il Sole 24 ore. In una cartina riproducente l’Europa Orientale, vengono riportati i dati relativi alla presenza delle varie nazionalità nei paesi di tutta l’area. Scrivo per ragioni di spazio solo quelli riguardanti i tre principali paesi balcanici:
Croazia: popolazione 4,7 milioni; minoranze interne: 500.000 serbi; 25.000 sloveni; 25.000 ungheresi. Bosnia-Erzegovina: popolazione 3,5 milioni; minoranze interne: 1.300.000 serbi; 750.000 croati. Serbia: popolazione 5,8 milioni; minoranze interne: 152.000 musulmani; 77.000 montenegrini; 72.000 albanesi; 31.000 croati; 31.000 bulgari, 29.000 macedoni. Vista la fonte autorevole, c’è da ritenere questi dati attendibili. Che cosa ci dicono? Innanzitutto che nonostante le tragedie, i massacri di questi anni, ancora esistono delle minoranze all’interno degli stati. Se la Serbia appare etnicamente più omogenea, non può non colpire la presenza di 70.000 albanesi al suo interno. Non mi risulta che durante l’Olocausto in Germania, magari a Berlino, ci fosse una folta rappresentanza della comunità ebraica. Questo non vuol dire ridimensionare i crimini di Milosevic e dei militari. Si tratta di non ...[continua]
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