A Bari, alle ore 16 di una piovosa giornata di dicembre, siamo saliti sulla scaletta del Fokker dell’Air France diretto a Tirana.
Questo viaggio era già stato rinviato tre volte, l’ultima l’estate scorsa, quando gruppi di giovani avevano trovato rifugio nelle ambasciate occidentali della capitale albanese e il Partito del Lavoro aveva proclamato lo stato d’emergenza e sospeso ogni rapporto con l’estero. Nell’atterraggio mi sentii tutt’uno con l’aeroplanino: prima sul mare poi sopra una terra chiazzata di mare, poi sopra campi disseminati di igloo di cemento armato, e poi sopra giovani soldatini che lo rincorrevano saltando ridendo e sventolando il berretto. L’aereo era fermo e dalla scaletta si profilava in tutta la sua mestizia l’aeroporto di Riinas. Ai confini della pista pascolavano alcune muccherelle dal pelo color nocciola o pezzato, accovacciate sotto l’ala di apparecchi in disarmo o di cartone, o ritte, immobili, ruminanti alle spalle dei soldatini che avevano smesso di correre. Piovigginava e di fronte al Fokker l’edificio della stazione dal corpo basso, lungo e rassegnato all’acqua sembrava una masseria abbandonata in un interminabile inverno.
Una lesione del manto d’asfalto separava l’interprete Ilir Gurakuqi, dal capo del cerimoniale dell’Assemblea Popolare, Vehid Borici. Borici si fece dare dall’interprete l’unico ombrello a disposizione e lo aprì sopra la testa di Alex Langer.
"Delegazione" mormorò per un pezzo con una voce bassa e ufficiale alle autorità di frontiera il capo del cerimoniale.
"Delegazione" ribadiva facendosi largo Gurakuqi. Ci lasciammo alle spalle la dogana e i compagni di volo che si preparavano a una lunga e laboriosa procedura d’ammissione come sulle nostre autostrade chi guidando veloce veda bloccate sulla corsia contraria centinaia di vetture.
Lo chauffeur buttò in terra un cencio con cui stava pulendo da una macchia di fango il parabrezza e aprì la portiera della Peugeot. Dentro l’abitacolo albeggiò la pelosa corona circolare che cerchiava la testa del capo del cerimoniale, e l’auto si mosse, voltò le spalle all’edificio che nascondeva alla vista degli albanesi la prova settimanale dell’esistenza dell’Europa e si lasciò inghiottire da una rapida pellicola di grigio. Passarono alcuni minuti durante i quali l’automobile navigò in silenzio in una terra di nessuno e all’uscita da una curva riapparve davanti a due ragazzi bagnati che la lasciarono sfilar via senza muoversi dal ciglio della strada. Portavano stivali di gomma, pantaloni di pezza rattoppati sulle ginocchia, una maglia di lana grossa e dietro di loro la campagna si affacciò stretta tra una balza e il cielo basso, squallida, come non ancora strappata al fango e alla guerra. Nella campagna non c’erano filari di viti, non alberi né orti, né case che tenessero il terreno ancorato o poderi con davanti sull’aia trattori e mezzi agricoli. Solo zolle fradice, acquitrini, ciuffi ispidi di sterpaglia, macchie di rovi e le cupole di cemento degli igloo che protendevano in tutte le direzioni le loro feritoie simili a orbite vuote.
Poi, risalendo sulla sommità d’un dosso, l’auto raggiunse un gruppetto di donne e di uomini confusi con la pioggia e con l’asfalto che avanzavano ai lati e al centro della strada. Questi ultimi scansandosi al suono del clacson si chinarono per guardare dentro la vettura. Non c’erano altre macchine per strada ma solo questi camminatori che andavano come tante gambe, braccia, teste, coordinate dall’uso. La carrozzabile in quel tratto era cinta da entrambi i lati da bei platani alti. L’auto accelerò obbedendo all’invito della prospettiva lineare e rivelò dopo una rapida corsa una sequenza di tronchi recisi ad altezze diverse, come mozziconi conficcati nel terreno, e alcuni ancora piangenti davanti ai resti del proprio corpo, amputati e lasciati cadere.
"Po po" rispose l’autista a una frase pronunciata a mezza bocca dal capo del cerimoniale, rallentò davanti alle buche che coprivano in tutta la sua larghezza la carreggiata, e sterzò portando la macchina vicino alla cunetta dove comparv ...[continua]
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