Questa sentenza ha suscitato numerose reazioni sia per la conclusione che ha avuto, sia per essere stata emessa dopo 25 anni dai fatti e dopo altre pronunce (ben sei) anche assolutorie.
Se la circostanza di eventuali diverse pronunce rientra nella fisiologia processuale, il trascorso del tempo non può non avere delle conseguenze, non tanto in riferimento all’istituto della prescrizione, quanto alla valutazione degli stessi elementi probatori che la celebrazione del processo deve costruire, e quanto alla necessaria sussistenza dei riscontri, che in casi analoghi devono essere particolarmente precisi ed idonei per scongiurare qualsiasi dubbio sulla responsabilità dell’imputato. In questi casi il giudice deve avvicinarsi alla vicenda processuale senza alcun pregiudizio che il tempo trascorso o la conoscenza, anche solo giornalistica o di altri mezzi di informazione, ha determinato sia in riferimento alla vittima che a coloro che l’accusa ritiene essere i responsabili.
Gli istituti dell’astensione e della ricusazione dovrebbero rimediare proprio a questi inconvenienti qualora ci sa la prova di fatti o situazioni che impedirebbero al Pubblico Accusatore e allo stesso Giudice di essere liberi di svolgere il loro ruolo in modo imparziale all’interno del processo. In taluni casi, però, la pubblicità dei fatti, la loro notorietà, i ruoli svolti nella società dalla vittima e dagli imputati, possono determinare un possibile condizionamento, inconscio o conscio, che mai viene riconosciuto. Se ciò accade, il pregiudizio che si determina per le varie ed eventuali parti processuali, si trascina sino al provvedimento conclusivo e il tentativo di individuare ove tale condizionamento si è prodotto, salvo casi di evidente illegittimità, si arresta sempre in quella insindacabile sfera del libero convincimento che assegna al giudice la possibilità di valutare liberamente le prove assunte.
Un cattivo esercizio del libero convincimento, oltre a tradire la conquista di civiltà che questo istituto ha rappresentato, e rappresenta, nei confronti delle prove legali, determina l’impossibilità di rimediare alle ingiustizie che necessariamente provoca.
Da una lettura della sentenza della Corte di Cassazione si rimane colpiti da alcune valutazioni che ineriscono i temi principali del processo: l’attendibilità di Marino ed i riscontri alle sue dichiarazioni accusatorie nei confronti di Bompressi, Pietrostefani e Sofri. Per quanto riguarda il primo aspetto, la sentenza affronta prima la credibilità del soggetto chiamante in correità e quindi l’attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. Secondo i giudici di Cassazione, Marino sarebbe credibile, tra le altre cose, perché è un "uomo buono", perché non avrebbe motivi di rivalsa nei confronti dei tre accusati e perché la menzogna relativa alla data in cui iniziò la sua collaborazione con i Carabinieri non inficia un giudizio complessivo positivo, anzi tale ultima circostanza corroborerebbe ancor di più la predetta riconosciuta credibilità soggettiva.
Le precedenti osservazioni sul trascorso del tempo assumono valore e pertinenza, se solo si prende in considerazione la sproporzione esistente tra questi elementi e la posta in gioco, ovvero il destino dei tre uomini, destinatari di queste dichiarazioni accusatorie.
Viene considerato un uomo buono nonostante le successive rapine da lui commesse, giacché queste sarebbero state effettuate per esigenze occasionali. Come tale occasionalità incida sulla bontà del suo carattere, non trova risposta nella sentenza; né trova risposta il legittimo dubbio scaturente dalla certezza che esigenze occasionali possano provocare il superamento dei limiti di legalità da parte ...[continua]
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