L’appuntamento è in Puškinskaja ploščad, sotto il monumento a Puškin. Nel cuore di Mosca. Tanti moscoviti si danno appuntamento lì, dove è più facile ritrovarsi che nelle tentacolari stazioni del metro. Lui, mi ha informata, veste di scuro. Anche la camicia è scura. Io sono italiana, caratteristica che mi rende di per sé piuttosto riconoscibile.
Lui è il professor Razumov, archeologo, storico, direttore del Centro “Vozvraščennye Imena” (Nomi restituiti) presso la Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo, che da anni lavora per resuscitare un frammento di vita, dare un nome, un volto a quanti, nell’era sovietica, sparirono in una fossa comune. Già otto volumi di “Nomi restituiti” sono stati pubblicati. “Martirolog Leningrada”, dedicato alle vittime della repressione di massa che colpì Leningrado dopo l’omicidio di Kirov, ha ottenuto nel 2000 il Premio Ancyferov come miglior libro di ricerca storica e scientifica su Pietroburgo.
Oggi, chi ancora non sa nulla riguardo alla sorte dei propri cari, si rivolge al professor Razumov per cercare notizie, documenti, tracce. Ma il lavoro è solo all’inizio.
L’appuntamento è alle nove, in una piazza ancora semideserta, in una Mosca che ogni giorno sembra svegliarsi a fatica. Del resto è agosto, e la città in ferie.
Ai piedi del pensoso Puškin con la mano sul petto, alla maniera di Napoleone, individuo il professor Razumov. Capelli corti e brizzolati, occhi chiari. Abito scuro, come annunciato. Una pesante borsa di pelle a tracolla.
Quando mi presento mi accoglie con un gesto ormai così inusuale in Occidente da apparire sorprendente e bellissimo: bacia la mano che avevo allungato per stringere la sua.
Mi accompagnerà al Poligono di Butovo, come d’accordo, ma prima m’invita per una veloce colazione in quello che era l’appartamento cittadino di Solženicyn, morto da pochi giorni. Sulla Tverskaja, al numero 12, nell’appartamento 169, in cui lo scrittore venne arrestato nel 1974, quando fu espulso dal paese.
Razumov è stato amico e collaboratore dello scrittore scomparso. Insieme hanno lavorato alla nuova edizione russa di Arcipelago Gulag.
L’appartamento, sede oggi di un’associazione culturale, è a due passi, e in un balzo, attraverso una serie di passages e cortili interni, ci ritroviamo sul pianerottolo di casa. Nonostante l’emozione nel varcare una tale soglia, il primo sentimento è quasi di delusione per un appartamento tanto comune, quasi anonimo se non fosse per i molti libri. Così diverso dai tanti “Dom musej” di scrittori e artisti, che spesso tentano di ricreare una fittizia, domestica intimità, ricorrendo a cianfrusaglie di rigattieri.
Pavimento di legno, pareti chiare, il soffitto bianco, alla russa. Mobili in formica, carichi di libri di cui cerco di fissare alcuni titoli. Ancora Puškin, Florenskij, Solovev.
A una vetrina è appesa una fotografia di Varlaam Šalamov, lo sventurato autore de “I racconti di Kolyma”. Ricordo una vecchia polemica: Šalamov considerava “Una giornata di Ivan Denisovič” un romanzo quasi edificante, rispetto alla nuda realtà dei gulag sovietici. Dal canto suo Solženicyn riconobbe la condizione particolarmente drammatica cui era stato condannato Šalamov: 17 anni di regime duro alla Kolyma. Poi di ritorno dal gulag, costretto a vivere in isolamento, impedito nel pubblicare, Šalamov finì in un ospedale psichiatrico.
La giornata sarà impegnativa, avverte il Professore. E premurosamente prepara, prima di metterci in marcia, una tazza di tè.
Impiegheremo circa un’ora, fra metropolitana e maršrutka, un furgoncino veloce comune in Russia, una sorta di compromesso fra autobus e taxi, per raggiungere la meta. Poco alla volta la metropoli digrada in quartieri periferici, agglomerati di palazzoni che pian piano lasciano posto alla campagna.
Butovo è una località a circa 20 chilometri a sud di Mosca, su quella che era l’antica strada in direzione di Varsavia. Prende il nome dalla parola “but”, una pietra da costruzione tipica di questa zona. Questo territorio, nel 1934, passò sotto il controllo del dicastero della sicurezza, l’NKVD e nel 1937-38 divenne un luogo di fucilazioni senza precedenti per intensità e numero di condannati: contadini, ex-ufficiali zaristi, invalidi, uomini di chiesa, ‘elementi antisovietici’ in genere, conclusero qui la propria esistenza.
Qui il 3 giugno 1938 venne fucilato anche Gino De Marchi, il comunista italiano di cui Gabriele Nissim ha raccontato la storia nel suo ultimo libro “Una bambin ...[continua]

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