Dopo anni di instabilità interna e di rapporti turbolenti con i paesi vicini e con l’Unione Europea anche la Serbia è finalmente salita sul treno che porta a Bruxelles. In un vagone separato dal Montenegro, che ha abbandonato nel 2006 con un referendum la federazione fra i due stati, ma con la speranza o l’illusione di poter mantenere qualche forma di controllo o sovranità sul Kosovo che, nel frattempo, ha scelto unilateralmente la strada dell’indipendenza con il sostegno degli Stati Uniti e della maggioranza dei paesi dell’Unione. Le elezioni presidenziali del febbraio scorso e quelle generali di inizio maggio hanno portato ai vertici dello stato una leadership decisa a scommettere sul futuro europeo del paese scuotendosi di dosso le frustrazioni ultra-nazionaliste e l’eredità ingombrante di un lugubre passato recente. E Bruxelles, giocando d’anticipo con un intervento a gamba tesa ai limiti del regolamento, ha mostrato di voler credere alla possibile svolta europeista della Serbia siglando con Belgrado in piena campagna elettorale un accordo di associazione che ha messo ko gli ultras della Grande Serbia. Per entrare in vigore, però, l’accordo è condizionato, come se fosse una nota a piè pagina, alla piena collaborazione con il Tribunale Internazionale sui Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia, il cui lavoro è stato spesso rallentato ed intralciato da quei settori più profondi dello stato che sono sfuggiti fino ad oggi ad ogni controllo politico.
Rada mi aspetta puntuale al grande centro congressi vicino al fiume Sava dove si tiene l’incontro con i rappresentanti delle organizzazioni non governative serbe. Alcuni di quei volti mi sono noti da tempo avendo con loro condiviso l’esperienza del Forum per la Pace e la Riconciliazione nella ex Jugoslavia nei primi anni novanta. Allora era proprio Rada che da Bruxelles teneva i collegamenti fra le varie realtà di un paese in via di decomposizione. Tutto spazzato via dall’incedere imprevedibile degli eventi. Ma c’è ancora qualcuno che rimpiange quel mondo e forse Rada, anche se non vuole confessarlo, è una di questi. Mi ha sempre stupito la ricchezza della società civile dello spazio post-jugoslavo a dimostrazione che il regime comunista di questo paese era un po’ meno totalitario degli stati del Patto di Varsavia e forse non meritava la fine tragica che ha fatto. Ma il verdetto della storia è inappellabile e si può solo prenderne atto. Tanta gente in sala e tanta voglia d’Europa, un’Europa che, però, non può o non vuole prendersi le proprie responsabilità e portare a termine quel processo di riunificazione del continente che è nell’ordine naturale delle cose. Troppe le paure, consce ed inconsce, troppe le esitazioni e le deviazioni dal cammino intrapreso. E troppi gli errori e le ferite che non cicatrizzano. Nonostante la gelida serata, i ristoranti nel quartiere boemo sono abbastanza affollati e, malgrado questo, il fumo è sopportabile. Rada ha appena terminato un corso di perfezionamento alla facoltà di Scienze Politiche e sta pensando di ritornare a Bruxelles per cercare lavoro. Ma Rada è in possesso anche di un passaporto belga e può muoversi liberamente senza bisogno di alcun ...[continua]
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