Quegli attivisti a bordo della flottiglia hanno cambiato il panorama politico: l’Egitto ha aperto il suo confine con Gaza, Israele ha rinunciato ai suoi piani di processare più di milleduecento attivisti palestinesi; le probabilità di un attacco contro l’Iran sono diminuite; Fatah è stata messa fuori gioco e Hamas si gode la ribalta della ritrovata legittimità simbolica. Nuove opportunità di pace sono all’orizzonte. La domanda, ora, è se Hamas e le altre parti in conflitto saranno in grado di sfruttarle.
Sin dal suo emergere, nel 1987, Hamas ha svolto un ruolo di alternativa religiosa e più "radicale” di Fatah, soprattutto dopo che Yasser Arafat ha adottato la soluzione a due stati. Si è rifiutata di riconoscere Israele come partner con cui negoziare e ogni precedente internazionale favorevole a un accordo per due stati sovrani.
Il suo statuto fa riferimento ai famigerati Protocolli dei Savi di Sion, rappresentando Israele come il prodotto di un intrigo internazionale ad opera di ebrei intrinsecamente malvagi. Ha anche rifiutato di rinunciare alla violenza.
Ma c’è un’altra versione di questa storia.
Hamas non ha mai tentato di imporre la sharia e non è un’organizzazione monolitica. Hamas ha dichiarato la disponibilità a un cessate-il-fuoco con Israele lungo cinquant’anni, e ha affermato che la soluzione a due stati è accettabile, se venisse accolta dalla maggioranza dei palestinesi in una libera votazione. I segnali di un atteggiamento nuovo e più pragmatico vengono sempre controbilanciati dal riemergere dell’antica retorica estremista. Ora che Hamas è in una posizione di autorità, le tendenze più pragmatiche potrebbero prevalere. Incoraggiare questa inclinazione è nell’interesse sia degli Stati Uniti che dei suoi alleati. Tuttavia, fino a che non ci sarà un cambiamento politico, Hamas ha la sua identità da proteggere, la sua lotta contro Fatah da vincere, e quindi degli interessi, come organizzazione, a ritardare la risoluzione del conflitto.
Per come stanno le cose oggi, nonostante la dichiarazione di essere pronta a rispettare la volontà popolare sui due stati, Hamas ha fatto di tutto per evitare che questa eventualità si concretizzasse. Ironicamente, con la sua indisponibilità a risolvere le proprie contraddizioni politiche, Hamas fa il gioco della destra israeliana, i cui sostenitori hanno a loro volta degli interessi a rimandare la soluzione del conflitto. Ne consegue che ciascuna delle fazioni viene definita da ciò cui si oppone, esercitando di fatto un veto sulla volontà delle maggioranze che in Israele e Palestina appoggiano la soluzione a due stati sovrani.
Se la creazione di uno Stato palestinese è davvero l’obiettivo strategico, allora si rendono necessarie delle tattiche che ci avvicinino alla sua realizzazione - o perlomeno che puntellino lo Stato in fieri. Ciò rende necessario, in primo luogo, dei negoziati diretti con Hamas, e il suo riconoscimento come organizzazione di massa, piuttosto che come manipolo di terroristi. Inoltre, bisognerà rafforzare la cooperazione tra Hamas e Fatah, e iniziare a occuparsi anche della sicurezza della Palestina, oltre che di quella di Israele.
L’atteggiamento di Israele e di Hamas cambierebbero se gli aiuti statunitensi e occidentali a entrambe le parti in conflitto venissero vincolati al conseguimento di traguardi volti ad assicurare la pace e all’istituzione di uno Stato palestinese indipendente? Forse no, ma certo un risultato sarebbe più probabile che non lasciando carta bianca ...[continua]
Esegui il login per visualizzare il testo completo.
Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!