Il Cairo è una metropoli di circa 18 milioni di abitanti, che cresce di circa mille residenti al giorno. È la città più grande d’Africa, ed è sudicia. Le rive dei suoi molti canali, le crepe delle sue tante strade, e persino i suoi quartieri più ricchi sono cosparsi di rifiuti. Il nostro autista ce lo ha fatto notare mentre ci avvicinavamo alla nostra destinazione. All’ingresso del villaggio dei rifiuti, appesi ad alcuni edifici, abbiamo visto grandi cartelli con le facce dei nove uomini uccisi nel corso dei violenti assalti compiuti da bande di musulmani (violenze che sono state condannate da un gran numero di imam).
Più in alto, nelle enormi caverne delle montagne adiacenti, da poco adornate con gigantesche scene bibliche scolpite nella pietra, sono state costruite chiese che possono accogliere 10.000 fedeli.
Questi luoghi di culto possono forse offrire un po’ di conforto. Tuttavia si innalzano sopra un insulto sia a Dio che all’umanità La povertà non ha mai aderito a nessuna fede in particolare. Funziona allo stesso modo con cristiani e musulmani. Quasi quattordici milioni di residenti al Cairo sono "poveri”, quattro milioni non hanno accesso all’acqua potabile, tre milioni non hanno accesso al sistema fognario e due milioni sono totalmente "indigenti”. Ma il grado di povertà sperimentato dai 40.000 residenti di questo villaggio dei rifiuti è qualcosa di speciale. I suoi residenti raccolgono la maggior parte dell’immondizia del Cairo. Per la stragrande maggioranza sono cristiani copti che originariamente allevavano maiali che nutrivano con l’immondizia. Sulla scorta di un’ondata di fanatismo islamico e della paura dell’influenza suina, 300.000 animali sono stati abbattuti nel 2009, anche se non è mai stato documentato un solo caso di malattia. Oggi solo qualche capra malata vaga per questo villaggio dei rifiuti composto da case traballanti, bar senza gioia, negozi vuoti e con una vita commerciale basata sui rifiuti. Con la privatizzazione del sistema di smaltimento dei rifiuti, in effetti, l’immondizia è diventata un prodotto economico. Carretti trainati da asini denutriti e vecchi camion trasportano l’immondizia nel villaggio dove le famiglie, che vivono in appartamenti sovraffollati, la smistano, la impacchettano e la preparano per la vendita. Il prodotto viene portato agli stabilimenti di riciclo e rivenduta, creando più immondizia, in un processo circolare che culmina in sfruttamento e disperazione.
L’immondizia rende indistinta la linea tra spazio pubblico e privato. Allestisce il palcoscenico su cui gli individui interpretano le loro vite. La sua puzza riempie l’aria che il popolo dei rifiuti respira. Attira gli sciami di mosche in numero tale da offuscare la vista. Porta i germi che producono le innumerevoli malattie. Aumenta la temperatura, già incandescente, che spesso raggiunge i 40 gradi e provoca incendi sparsi. Bambini luridi giocano nell’immondizia. Mogli cucinano pasti, lavano i vestiti e danno alla luce bambini circondate dall’immondizia. Gli uomini lavorano nell’immondizia, fumano i loro narghilè in mezzo ai rifiuti, ridono e piangono nell’immondizia. Uomini anziani con gli occhi vuoti guardano fiaccamente mentre l’immondizia viene impilata in mucchi ancora più alti nei vicoli soffocanti. Tutti sembrano solo aspettare la morte tra i parassiti, la puzza, il caldo e la polvere.
Ma il villaggio dei rifiuti è davvero un così grande affronto alla dignità umana? La rivoluzione ...[continua]
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