La barriera delle postazioni degli agenti di polizia addetti al controllo dei passaporti rappresenta, negli aeroporti, il varco oltrepassato il quale ci si trova proiettati in una realtà parallela che si estende a macchia di leopardo in ogni angolo del pianeta. È il mondo del duty-free, esclusivo, luccicante, intrigante, fatto di stand, insegne luminose e boutique dalle commesse sfuggenti, con il sorriso appiccicato sulla bocca e gli arredi eleganti, con le merci meticolosamente esibite su scaffalature spesso invadenti per adescare i passeggeri costretti a sostare per ore in attesa di una coincidenza. Da Malpensa a Istanbul fino ad Almaty, trascinando la valigia che non consegno mai al check-in per evitare che il bagaglio venga smarrito (come puntualmente avviene quando ci si avventura nello spazio post-sovietico), per arrivare a Dushanbe dopo più di venti ore di viaggio. Raggiungere il Tagikistan non è affatto facile.
Già nel febbraio 2008 avrei dovuto venire da queste parti, ma la delegazione fu cancellata all’ultimo momento a causa di una delle ricorrenti crisi energetiche che lasciano gli hotel in balia del rigore del gelo centroasiatico. Poi solo qualche sporadico contatto fino alla svolta recente che ha portato l’Unione Europea a sottoscrivere con il Tagikistan un accordo di partenariato e cooperazione che ha spianato la strada all’approfondimento delle relazioni bilaterali, comprese quelle interparlamentari.
Contrariamente a quanto avvenuto con i vicini Kirghizistan e Uzbekistan, il Tagikistan ha dovuto attendere molti anni prima di definire un quadro stabile nell’ambito del quale sviluppare i rapporti politici, economici e commerciali con l’Europa. Agli inizi degli anni Novanta, infatti, all’indomani dell’indipendenza, il paese era piombato in una drammatica guerra civile che ha fatto quasi 100.000 vittime. L’accordo di pace siglato dalle parti nel 1997 ha messo fine al conflitto legalizzando i partiti di opposizione e ponendo le basi per la condivisione del potere, con l’obiettivo di stabilizzare la situazione e promuovere un genuino processo di riconciliazione nazionale.
Il presidente di allora, Emomali Rahmonov, è lo stesso di oggi con la differenza del cognome, nel frattempo de-russificato, che, perdendo la desinenza finale, si è trasformato in Rahmon. Uomo della nomenklatura sovietica, una volta sancita la pacificazione del paese, si è ben presto rimangiato i patti sottoscritti restringendo gli spazi dell’opposizione ed accentuando, in particolare, la pressione sul Partito del Rinascimento Islamico, la forza principale che minacciava e tuttora insidia il suo potere. Oggi Rahmon domina incontrastato un paese piagato da corruzione, sottosviluppo e nepotismo. Il Tagikistan è la più povera delle cinque repubbliche dell’Asia Centrale. Con un reddito medio mensile di 74 dollari a famiglia si piazza al 127esimo posto nella graduatoria sullo sviluppo umano stilata ogni anno dall’Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite. Non fosse per le rimesse del cospicuo numero di emigranti, il paese si troverebbe in una situazione ancora peggiore. La comunità tagika in Russia supera ormai il milione mentre qualche centinaia di migliaia sono quelli che hanno abbandonato il paese per trasferirsi nel vicino Kazakistan baciato dal boom dell’industria petrolifera. In pratica ogni famiglia ha un membro o un parente che lavora all’estero grazie al quale riesce, pur tra mille difficoltà, a sbarcare il lunario. Si calcola che il denaro proveniente dalla diaspora costituisca il 40% del prodotto lordo del Tagikistan. Un altro 40%, in buona parte sommerso, deriva dal traffico di stupefacenti lasciando solo una piccola fetta di Pil ad attività tradizionali come la coltivazione del cotone il cui prezzo sul mercato internazionale negli ultimi mesi è schizzato verso l’alto gratificando le disastrate casse dello stato.
Non va dimenticato, comunque, che solo il 7% del suolo è arabile, con limiti insormontabili allo sviluppo del settore agricolo non in grado di sopperire al crescente fabbisogno alimentare del paese. Il resto è montagna, specialmente la parte orientale, il Pamir, con guglie che superano i 7000 metri di altezza e paesaggi mozzafiato dove l’occhio stenta ad arrivare.
Confesso di non avere mai visto un aeroporto internazionale di una capitale così vuoto come quello di Dushanbe. Nessun aereo sulla pista, nessun apparecchio nelle aree di sosta, sale d’aspetto vuote. Gli addetti che segnalano a terra il percorso al pilota per le operazioni di sbarco non sembrano, ovviamente, molto indaffarati così come gli agenti di dogana che controllano i passaporti nell’esigua area Vip. I fatiscenti caseggiati di edilizia popolare sovietica prospicienti la stazione aeroportuale non sono il miglior biglietto da visita per chi giunge per la prima volta da queste parti. L’hotel, invece, in pieno centro, è nuovo di zecca, frutto di uno dei tanti investimenti che l’Aga Khan ha fatto in Tagikistan dove risiede una grossa comunità ismaelita. Behruz ha poco più di vent’anni, lavora alla reception. Lo recupero grazie ad alcuni suoi colleghi ai quali mi rivolgo per trovare una macchina che mi porti fuori città. Mi spiega che a tempo perso arrotonda lo stipendio accompagnando gli scarsi turisti nei dintorni della capitale. Direzione Hisor dove le guide riportano le rovine di un’antica fortezza.
Dicono che questa sia la stagione migliore per visitare il Tagikistan. Nel giro di poche settimane il verde rigoglioso ed esuberante che abbacina i miei occhi si tramuterà in un giallo arido desolante. Del 30% di bosco che ricopriva il paese, è rimasta solo la decima parte dopo anni di taglio indiscriminato da parte della popolazione rurale per far fronte, nei mesi freddi, alla cronica carenza di combustibile. Gli unici alberi che hanno resistito sono i gelsi, siamo sulla via della seta, e quelli da frutto, in particolare i ciliegi, che si alternano alle magre coltivazioni di cereali. La vite non sembra godere di molta considerazione visto l’aspetto trascurato dei tralci ma, d’altronde, siamo in una repubblica di tradizione musulmana che non contempla la cultura del vino anche se la carne di maiale è di uso comune, frutto delle consuetudini russe. Behruz mi racconta di essere soddisfatto del proprio lavoro. Trecento dollari al mese sono uno stipendio più che dignitoso, specialmente per un giovane al primo vero impiego. Nonostante questo frequenta nei ritagli di tempo un corso di giornalismo che rappresenta la sua vera ambizione professionale.
Nel corso della breve escursione riesce a perdersi un paio di volte lungo strade prive di indicazioni. L’ultima, mio malgrado, mi dà modo di toccare con mano il livello di corruzione del paese. Imboccando per sbaglio un senso unico al contrario in una cittadina veniamo fermati da un agente di polizia che, dopo avere chiesto i documenti a Behruz, lo fa scendere dal veicolo per farsi accompagnare alla propria auto dove sottobanco si fa consegnare alcune banconote per lasciarci ripartire. "Meglio così”, commenta il mio accompagnatore appena ripreso il viaggio, "con venti somon (la divisa locale) in pochi secondi ho risolto la situazione; me ne sarebbero serviti almeno cento e parecchi giorni di attesa per recuperare la patente nella stazione di polizia se avessi dovuto seguire la procedura legale”. Quello degli abusi delle forze di polizia è una delle piaghe caratteristiche dei paesi dello spazio post-sovietico. Sono tanti quelli che ambiscono ad entrare nel corpo nonostante la paga bassa ed il trattamento non proprio di riguardo. La regola informale è che, una volta arruolato, sta poi al singolo trovare il modo di rimpinguare il salario "di base” con metodi non ortodossi e la connivenza dei superiori anche loro impelagati nelle stesse losche pratiche. Non è un caso che i poliziotti da queste parti siano odiatissimi. In Tagikistan, per giunta, le forze dell’ordine portano ancora il nome di "milizia” con tutte le implicazioni che questo termine comporta.
Il ministro degli esteri Khamrokhon Zarifi ci accoglie nella grande sala di una sontuosa dacia immersa nel verde a pochi chilometri da Dushanbe. "La nostra è una politica estera multivettoriale -esordisce- nelle nostre relazioni non vogliamo dare la preferenza ad alcun paese in particolare”.
Detto in parole povere, come per le altre repubbliche dell’Asia Centrale vale la regola che l’amicizia viene concessa a chi offre di più, non importa chi esso sia o cosa rappresenti. "Sulle nostre spalle ricadono molte speranze e aspettative -continua- in particolare per quanto riguarda la situazione in Afghanistan”. Non nasconde, il ministro, le sue preoccupazioni in relazione al ritiro delle forze occidentali dallo scomodo vicino previsto per il 2014. Con l’Afghanistan, il Tagikistan condivide più di mille chilometri di una frontiera quasi impossibile da controllare, con tutto quello che ne deriva in termini di infiltrazioni terroristiche e traffici illegali. "Dall’Afghanistan -sottolinea Zarifi- stiamo subendo una narco-aggressione difficile da contrastare”. Per quanto riguarda gli altri paesi della regione, il ministro ammette la tensione crescente con l’Uzbekistan, pur manifestando la completa disponibilità a risolvere pacificamente il contenzioso in corso che riguarda, in particolare, la progettata diga di Rogun. "Per noi l’Unione Europea rappresenta un modello di cooperazione -aggiunge- vorremmo riprodurlo in Asia Centrale, ma non ci possono negare il diritto di sfruttare le nostre risorse”. "Tengo a far presente -conclude Zarifi- che rispetto all’epoca sovietica abbiamo ridotto del 60% la produzione del cotone per lasciare spazio a coltivazioni a minore intensità idrica che contribuiscono a soddisfare il fabbisogno alimentare del paese come cereali e verdure”.
Nonostante le ridotte dimensioni (meno della metà dell’Italia) il Tagikistan si colloca al sesto posto nel mondo come potenziale di energia idro-elettrica. Grazie alla preponderanza delle catene montagnose, ghiacciai ed acqua costituiscono l’unica vera risorsa del paese. In questo contesto e dopo anni di ripetuti shock energetici e di problematiche relazioni con i vicini, il governo ha rispolverato il progetto della diga di Rogun, iniziato nel 1976, in epoca sovietica, e sospeso nella seconda metà degli anni Ottanta per mancanza di fondi.
L’impianto di Rogun è ormai diventato un’ossessione per le autorità tagike che ne hanno fatto una questione di interesse strategico legata alla sopravvivenza dello stato. Definire l’opera colossale è persino riduttivo. Lo sbarramento sul fiume Vakhsh, un affluente dell’Amu Darya, infatti, è destinato a diventare il più alto al mondo con un altezza massima di 335 metri ed un invaso che dovrebbe raggiungere i 75 chilometri di lunghezza ricoprendo 17.000 ettari di territorio. Sono circa 35.000 le persone che dovranno abbandonare le proprie abitazioni per far posto ad un mostro energetico da 3600 megawatt, superiore addirittura alla diga delle "tre gole” inaugurata in Cina nel 2008, che metterebbe il Tagikistan in condizione di trasformarsi in esportatore netto di energia elettrica. Poiché i costi dell’opera sono esorbitanti, le stime si aggirano attorno ai 3,5 miliardi di dollari, e le casse dello stato sono vuote, il governo tagiko ha dovuto rivolgersi per i finanziamenti alla Banca Mondiale che ha subordinato l’intervento ad adeguati ed approfonditi studi di impatto ambientale. Il primo di questi è previsto per il febbraio del prossimo anno, ma fonti ufficiose hanno già fatto trapelare che i tecnici dell’istituto internazionale avrebbero richiesto di dimezzare l’altezza dello sbarramento, mandando su tutte le furie la controparte tagika. L’idea di sostituire un unico mega impianto con più dighe di piccole dimensioni lungo tutto il corso del fiume era stata avanzata a più riprese anche dalle organizzazioni ambientaliste scontrandosi, però, con la ferma opposizione del governo, che teme un aumento dei costi tale da rendere l’opera economicamente meno vantaggiosa. Di fatto l’alta sismicità del territorio tagiko spaventa gli osservatori internazionali così come le pesanti ripercussioni ambientali che si registrano nella zona cinese delle "tre gole” colpita da alterazioni geologiche e modificazioni microclimatiche deliberatamente sottostimate dalle autorità di Pechino. Intanto sono partite le procedure di esproprio che hanno scatenato le proteste delle popolazioni interessate.
Quando, due anni fa, Emomali Rahmon ha fatto visita al parlamento europeo si è rischiato l’incidente diplomatico. Di fronte alla Commissione Esteri si è esibito in un discorso tanto lungo e monotono quanto pedante e saccente finalizzato a decantare le magnifiche sorti di un paese delle meraviglie condotto con lungimiranza e benevolenza da un leader illuminato. Dopo cinquanta minuti di un monologo che aveva quasi occupato l’intera seduta, gli eurodeputati, spazientiti, hanno cominciato a rumoreggiare rivendicando ed ottenendo il diritto di rivolgere domande, come è consuetudine, all’ospite di turno. Ascoltare e rispondere non faceva parte della cultura sovietica e questa tradizione è ancora ben radicata negli autocrati che hanno ereditato il potere. Trovandosi di fronte al fuoco incrociato dei membri del parlamento che chiedevano conto delle violazioni dei diritti umani e degli immensi problemi che attanagliano la piccola repubblica dell’Asia Centrale, al presidente tagiko non è restato che farfugliare qualche risposta confusa confortato dalle inesorabili lancette dell’orologio che, nel frattempo, avevano sancito la fine della riunione. Facendo tesoro di questa esperienza traumatica, prima di ricevere la delegazione Rahmon ha imposto al protocollo che al suo intervento non facessero seguito domande. "Costruire uno stato democratico e laico in grado di cooperare con tutti i paesi vicini è la sfida che il Tagikistan sta affrontando e vuole vincere dopo il pesante prezzo in termini di vite umane pagato con la guerra civile”, esordisce il padre padrone della giovane repubblica centroasiatica, "con il conflitto in Afghanistan il mio paese si è trasformato in uno stato cuscinetto che fa da tampone al traffico di stupefacenti e di armi”. "La situazione a Kabul è lungi dall’essersi stabilizzata -continua- non mi sembrano ancora maturi i tempi per il ritiro del contingente multinazionale dalla regione”. Rahmon sottolinea il buon livello di cooperazione raggiunto con l’Unione Europea, ma ritiene insufficiente il programma congiunto di controllo delle frontiere che non garantisce per adesso la sicurezza necessaria. "Vogliamo allargare le relazioni ad altri settori come istruzione, assistenza sanitaria, energia e agricoltura -osserva- e guardiamo al parlamento europeo come uno dei più influenti organi democratici al mondo da cui prendere esempio”. Inevitabile che, poi, il discorso scivoli sul progetto di Rogun. "Nessuno dei nostri impianti idro-elettrici minaccia la sicurezza dei nostri vicini -sostiene Rahmon- non siamo stati noi a prosciugare i fiumi che affluiscono al Lago di Aral, perché dovrebbe essere il Tagikistan a pagare i costi di irrigazione del cotone uzbeko? Siamo disponibili ad una valutazione complessiva delle riserve idriche in Asia Centrale”, conclude dopo un’ora di intervento a tratti stucchevole, in sintonia con gli stucchi scontati dell’ampio salone presidenziale. Una rapida stretta di mano con i presenti e poi l’uscita di scena da una porta laterale con una coda di cortigiani abbigliati in pesanti ed ingombranti doppiopetto dalle tinte funebri.
Il centro di Dushanbe è gradevole e accogliente. Fra tutte le capitali centroasiatiche, è la meno incasinata con i viali imponenti all’ombra di platani e ippocastani dove defluisce un traffico ordinato e scorrevole con veicoli che non sembrano pressati dalla fretta ed i poster del presidente sugli edifici principali mentre visita un cantiere o sorride tra i campi di papaveri con in mano alcune spighe di frumento. Resistono i filobus che, forse a causa degli sbalzi di corrente, a volte si bloccano e devono essere spinti a mano dai passeggeri rassegnati. Più caotica è la situazione nei pressi dei bazar all’aperto che qui hanno mantenuto le caratteristiche tipiche della regione. Oltre ai variegati banchi di frutta secca ed a quelli multicolori e dal profumo intenso e pungente delle spezie e delle erbe, colpisce il reparto dei cereali dominato, in particolare, dal riso. Non mi era mai capitato di vedere così tante varietà di chicchi debordare dai sacchi allineati meticolosamente su sbarre di sostegno spesso improvvisate. In Europa abbiamo perso la cultura del riso, per noi una qualità vale l’altra; qui no. Chicchi dalla forma allungata e sottile si alternano a quelli più compatti e regolari con colori e tonalità che variano dal bianco sporco al giallo paglierino. Un vero spettacolo che meriterebbe una degustazione attenta; purtroppo, non mi è possibile.
Sono solo tre le ambasciate europee presenti a Dushanbe e fra queste non c’è quella italiana anche se in Tagikistan c’è una piccola comunità italiana che opera nel campo dell’assistenza alla cooperazione e allo sviluppo. Filippo Crivellaro e Giuseppe Bonati sono arrivati nella capitale tagika qualche anno fa con il Cesvi, un’importante organizzazione non governativa italiana, per occuparsi di sviluppo rurale ed artigianato. Oltre a questo si adoperano per la diffusione della cultura centroasiatica in Europa. "Pur tra mille difficoltà -affermano- in Tagikistan ci troviamo bene anche se nelle campagne si vive in condizioni drammatiche”. Filippo e Giuseppe mi fanno presente che per quanto riguarda i diritti dell’uomo la legislazione vigente è più che sufficiente. "Quello che manca -osservano- è il rispetto di questa: chi deve perseguire coloro che violano le leggi spesso chiude gli occhi”. Il Cesvi, in Tagikistan, è in buona compagnia. Sono, infatti, molte le Ong che operano nella più povera repubblica della regione per portare sollievo alle comunità più isolate dimenticate dal governo centrale.
"Meglio una cattiva pace che una buona guerra” è il motto che ripetono meccanicamente tutti i miei interlocutori per esorcizzare la guerra civile di cui il paese porta ancora ferite non completamente rimarginate. Il conflitto, in effetti, si è solo spostato dall’interno all’esterno dei confini con la guerra in Afghanistan che minaccia da un momento all’altro di destabilizzare di nuovo l’intera regione. L’ultima diga, quella di Rogun, rischia di sconvolgere ulteriormente gli squilibri idrici dell’area. L’ultima diga, quella contro il radicalismo islamico, rischia di crollare con conseguenze altrettanto devastanti.