Cari amici,
trent’anni fa passai cinque ore indimenticabili in una roulotte parcheggiata davanti al County Hall di Londra. A quei tempi, lo splendido palazzo edoardiano, con il suo placido tetto verde, era la dimora del Consiglio della Grande Londra. Oggi ospita due alberghi economici, un acquario marino, delle gallerie d’arte commerciali e il London Dungeon, una macabra attrazione turistica per gli appassionati delle torture con catene e serrapollici. Non è facile conciliare ciò che l’edificio rappresenta oggi con la sua funzione di allora, quando era la sede di un consiglio indipendente che si prendeva cura dei comuni cittadini. Si trattava del superbo Consiglio della Grande Londra, il Gcl, abolito dai conservatori sotto il governo della Thatcher. Ricordo ancora le lacrime della gente davanti al palazzo, in strada e lungo la sponda del fiume, durante il suo ultimo giorno di attività: un ultimo giorno che fu una festa d’addio della gente per la gente. Niente biglietto d’ingresso. Nessuno scambio di denaro. Il labirinto di immensi corridoi tenuemente dipinti nei colori di Londra ospitava il cuore dell’opposizione cittadina alle politiche dei Tory e, nel suo periodo di maggior splendore, dei gruppi di ricerca sull’impatto delle politiche governative sui più vulnerabili ed emarginati: le minoranze, la gente comune, i poveri. Denunciò abusi di potere e tracciò mappe della corruzione; permise a cinque scioperanti provenienti dalle miniere di carbone del South Yorkshire di parcheggiare una roulotte a un tiro di schioppo dal palazzo del parlamento, per raccogliere denaro con cui sostenere le famiglie degli altri scioperanti. Non c’è da stupirsi se non esiste più.
A riportarmi a quelle cinque ore passate in una stretta roulotte a parlare dello sciopero, sorseggiando tè e porgendo dei secchi alla gente che passava lungo il fiume, sono le ultime notizie: due miniere sotterranee di carbone su tre stanno per chiudere e la cosa comporterà la perdita immediata di 1300 posti di lavoro, a meno che non vengano raccolti dieci milioni di sterline per attuare un programma di chiusura che garantisca una cessazione più graduale. I problemi finanziari a cui vanno incontro le miniere sono da imputarsi alle condizioni del mercato internazionale, alla sterlina forte, alle importazioni a basso costo dagli Usa che rendono impossibile ogni forma di concorrenza e al crollo del prezzo globale del carbone dovuto anche all’improvviso successo del gas di scisto proveniente dall’America. Le miniere inglesi si stanno appellando a un governo che ha speso i soldi dei contribuenti, 850 miliardi di sterline, per salvare le banche; il carbone fornisce il 40% della produzione elettrica del Regno Unito. Il sindacato nazionale dei minatori ha definito la chiusura una soluzione "totalmente ridicola”. Gli esponenti del governo ritengono che le rimanenti miniere di superficie continueranno a estrarre carbone per il 40% della loro produzione attuale. Nessun problema, dunque: la perdita di 1300 posti di lavoro nel Nord e un’ulteriore riduzione della produzione nazionale di energia non è affare per cui perdere il sonno.
Ma il carbone suscita le emozioni della gente. È stato la base della rivoluzione industriale britannica; un’industria infangata da abusi, negligenze e sfruttamenti. Prima della riforma del 1842, era normale che bambini anche di otto anni lavorassero sottoterra e ancora nel 1870 ogni anno si contavano un migliaio di morti sul lavoro. Abbiamo dovuto combattere per ogni singolo diritto alla dignità umana. Nel 1984 ebbe luogo la battaglia più grande: per un anno, il sindacato nazionale dei minatori scioperò contro i piani di chiusura delle miniere che portavano alla decimazione dell’industria e delle comunità sorte attorno alle miniere. Lo scioperò si distinse per gli scontri violenti tra scioperanti e forze dell’ordine. I documenti governativi pubblicati precedentemente quello stesso anno rivelavano che i piani di chiusura delle miniere avrebbero comportato la cessazione di 75 attività nel corso di tre anni e una perdita di 64.000 posti di lavoro, ma che non sarebbe stata rilasciata alcuna lista di quali miniere avrebbero smesso di funzionare. Alla fine venne chiuso il 70% dell’industria mineraria britannica e i minatori che persero il posto furono 193.000.
Oggi, la gestione di una buona metà dei nostri servizi essenziali è di proprietà estera, inclusa l’acqua e l’energia. La materia della sopravvivenza è diventa semplice materia di profitto e al Regno Unito non resta che passare dei lecca-lecca dorati agli azionisti di una terra lontana. Per dare una sepoltura dignitosa a ciò che rimane della nostra superba industria mineraria basterebbero le briciole finanziarie del banchetto salva-banche. Se solo potessimo salvarla.
Lo scorso aprile, il nord dell’Inghilterra è stato stretto in una morsa invernale: cumuli di neve alti metri, strade bloccate, promontori e campi ammantati di bianco. Io stavo attraversando lo Yorkshire e passai la notte in un Ostello della Gioventù dove incontrai un francese e la sua famiglia. L’uomo lavorava qui per una compagnia energetica francese. Ricordo che il mattino seguente, a colazione, scosse il capo con perplessità. Com’è possibile che in un paese che regala neve e alluvioni su base annuale si verifichi una così folle mancanza di lungimiranza per quanto riguarda lo sfruttamento dell’energia, una così folle mancanza di energia. Mi disse che era pazzesco e che in Francia non sarebbe mai accaduto. Disse che stavamo davvero rischiando di spegnere le luci una volta per tutte. Nel 1970 ci fu un periodo di terribili black out. Ricordo ancora che mia madre costruiva lampade usando olio da cucina, vasetti di vetro e stoppini di spago fatti in casa. Rannicchiarsi nel buio appena oltre il loro stretto cerchio di luce era una vera e propria avventura. Quei black out erano dovuti agli scioperi. Se le luci si spegneranno ancora, sarà a causa di un governo che osserva la realtà attraverso il prisma caleidoscopico del breve termine.

© Belona Greenwood
(traduzione a cura di Antonio Fedele)