Mario Rasetti, già presidente del Gruppo Nazionale di Struttura della Materia del Cnr, è docente presso il Dipartimento di Fisica del Politecnico di Torino e direttore della Scuola di Dottorato di Ricerca.

Volevamo consultarla sulla crisi Fiat in generale, ma anche sull’altrettanto drammatica crisi della ricerca in Italia...
Occupandomi qui al Politecnico della scuola del dottorato di ricerca, cioè del terzo livello (la riforma universitaria prevede ora una laurea divisa in due parti, “trepiùdue” -così la chiamiamo noi- a cui può seguire il cosiddetto “piùtre”, cioè il dottorato di ricerca), in particolare della facoltà di ingegneria, capirete che la crisi della della Fiat mi ha colpito particolarmente. E devo dire che, vista da qui, questa crisi, come del resto quella che ha investito tutto il paese, è soprattutto una crisi di management: stiamo assistendo al collasso di una classe dirigente che non ha mai avuto alcuna sensibilità per la ricerca, una classe dirigente che, addirittura, non è neppure in grado di distinguere culturalmente fra ricerca, innovazione e sviluppo. Apro una parentesi perché questa è una distinzione a cui tengo particolarmente: la ricerca è quella che acquisisce nuovi saperi, nuove conoscenze, nuove informazioni; poi c’è l’innovazione, che è il trasferimento di queste conoscenze al piano industriale, al piano della realizzazione; infine c’è lo sviluppo, che consiste semplicemente, una volta acquisita l’innovazione, nella trasformazione, nella razionalizzazione, nel miglioramento.
Ora, dobbiamo aver presente che la ricerca sarà il pilastro di una società futura, sempre più centrata sullo sviluppo della conoscenza e sull’informazione, non nel senso mediatico del termine, ma in quello della circolazione delle conoscenze e delle idee, che sarà sempre più veloce. Noi stiamo progressivamente sostituendo il vecchio manpower con il brain-power. In tutto questo, la ricerca ha un ruolo essenziale perché è l’acquisizione di nuove conoscenze.
Ora, se lei va a guardare negli anni scorsi i contratti di ricerca che questo Politecnico ha stipulato col mondo industriale, vedrà che sono per lo più, come direbbero in America, di outsourcing, cioè progetti di sviluppo a livello basso o medio-basso. Non ci si chiede di fare ricerca alta, e neanche di fare innovazione. C’è una legge che fu voluta da Amato, e che è stata in vigore fino all’anno scorso -ora è stata cassata- che dava incentivi a quelle industrie che investivano in ricerca, anche nel mondo accademico. Se un’industria offriva alla scuola del dottorato del Politecnico di Torino una borsa di dottorato, aveva un recupero fiscale del 60%. Alla fine una borsa di dottorato a un’industria costava qualcosa come undici milioni di lire all’anno: un’industria, cioè, poteva avere una persona motivata, colta, selezionata in qualità, che operava su ricerche che le interessano, per undici milioni all’anno. A mio avviso ne avrei dovute avere 2.000 di borse di questo tipo, avrei dovuto trovare la fila degli industriali che me le chiedevano. Sa invece quante ne abbiamo attivate? 48. E tutte da piccole e piccolissime industrie a tecnologia avanzata, che non possono permettersi una ricerca autonoma, e però hanno il desiderio di svilupparsi; non ne abbiamo avuta nessuna da medie e grandi industrie.
La Fiat, certo, ha il suo centro ricerche. Ma quanto sia stato miope il management Fiat lo dice proprio il fatto che in questi anni da quel centro è uscita una cosa di importanza enorme, grandiosa, il common rail, che stanno usando tutti, dalla Mercedes alla Toyota, e per il quale alla Fiat non è arrivata praticamente una lira per una stupida politica sulle proprietà intellettuali: i ricercatori che l’hanno creato volevano giustamente partecipare del brevetto; la Fiat non ha voluto finanziare il brevetto, e così l’invenzione è arrivata sul mercato e adesso la sta usando tutto il mondo con ritorno zero.
Posso raccontare un episodio che mi riguarda personalmente. Vent’anni fa, in una situazione di difficoltà della Fiat un po’ analoga a questa, con cassa integrazione, Francesco Ciafaloni mi venne a parlare e mi disse: “Mi piacerebbe un articolo sul ruolo della ricerca, il sindacato sta puntando sull’idea dell’auto elettrica, scrivimi un pezzo”. E io gli dissi: “Faccio il fisico teorico, non so nulla di auto elettriche”. Poi, però, accettai: lessi un po’ di cose, mi documentai e scrissi un articolo nel quale da una parte criticavo cosa stava facendo la ...[continua]

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