Nel suo ultimo libro racconta la storia demografica del nostro paese. Mi piacerebbe partire da un momento molto particolare di questa vicenda, ovvero dal cosiddetto “discorso dell’Ascensione” di Mussolini, nel maggio del 1927, in cui il Duce sostiene la necessità di incrementare il tasso di natalità: senza una popolazione adeguata “non si fa l’Impero, si diventa una colonia”. Quanto la politica pronatalista del regime ha influito sull’opinione pubblica italiana? Chiunque parli di aumento di natalità oggi può ricordare quelle politiche...
Sì, questo rischio c’è e ha condizionato le politiche famigliari e di natalità in Italia fin dal secondo Dopoguerra. È stato difficile anche solo parlare di demografia dopo quell’eccesso di retorica. Il regime voleva far crescere la popolazione a fini bellici e imperialisti, per imporsi sugli altri paesi; così, superata quella fase, si è voluto e dovuto rimuovere quella retorica. In altri paesi, come Francia e Svezia, si è continuato a proporre al dibattito pubblico la necessità di politiche di sostegno alle scelte genitoriali, senza avere remore o freni morali. Si faceva presente il problema della natalità nel pieno rispetto della libera scelta di fare figli (e non certo di farli per la patria!), e si sono sviluppate politiche per mettere nelle condizioni adeguate chi voleva farli. In Italia tutto questo è rimasto a lungo un tabù, facendo sì che la natalità crollasse maggiormente qui rispetto che in altri paesi. Abbiamo maggiori squilibri demografici e abbiamo cominciato più tardi a preoccuparcene. Non sono state messe in atto politiche di sostegno alla scelta di avere figli, e così la fecondità italiana è rimasta vincolata a livelli molto bassi. Nel nostro paese c’è un eccesso di retorica positiva attorno alla famiglia. Si parla sempre dell’importanza della famiglia, che da noi era così forte e virtuosa che alla fine è stata abbandonata a se stessa.
Eppure, in un periodo preciso della storia del paese, la natalità è cresciuta in modo inaspettato: parlo del fenomeno del baby boom, all’inizio degli anni Sessanta, che nel libro lei spiega essere del tutto congiunturale. Nel 1964 si arrivò a un picco della fecondità: 2,7 bambini per donna. Una parentesi di crescita all’interno di un’inesorabile discesa. Come è stato possibile?
Se guardiamo al percorso del paese nel secondo Dopoguerra, quel periodo possiamo considerarlo una vera “primavera” dal punto di vista demografico. Per spiegare il picco del ’64 bisogna risalire alle sue cause indirette. Da una parte c’è la ricostruzione. Il paese, dopo la guerra, è in ginocchio. Le infrastrutture vanno ricostruite: ponti, strade... Su questa ricostruzione, il paese mette le basi della sua crescita. Si arriva così al boom economico. Le nuove generazioni si sono trovate a vivere in un paese che cresceva, diventavano adulte in un contesto che creava opportunità nuove. L’industrializzazione apriva possibilità di lavoro anche per chi aveva titoli di studio bassi. Era normale, per un giovane di vent’anni, iniziare a lavorare e avere un reddito stabile, capace di sostenere una famiglia -che in quel periodo, è bene chiarirlo, era ancora culturalmente “tradizionale”: l’uomo fuori a lavorare, la moglie in casa a badare i figli. Quella breve fase di grandi opportunità economiche è bastata per cristallizzare l’idealtipo di famiglia composta da padre lavoratore, madre casalinga e due-tre figli da crescere. Un modello borghese rafforzato anche dalla televisione e dalla pubblicità, che si è stampato nell’immaginario collettivo del paese. Ma quel modello è frutto di un momento del tutto eccezionale della nostra storia.
Il sistema di welfare si è consolidato attorno alla figura del maschio adulto lavoratore, rispetto alla pensione, al lavoro, e così via. L’economia consentiva non solo di basarsi su un unico reddito, sufficiente ad aprirsi a ...[continua]
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