Giovanni Dall’Orto, ex giornalista, è storico e attivista. Nel 1985 è stato tra i fondatori del gruppo Asa (Associazione Solidarietà Aids) di Milano e per due volte presidente dell’Arcigay di Milano e membro della segreteria nazionale Arcigay. Ha contribuito alla Enciclopedia dell’omosessualità (New York, 1990) e ha scritto le voci italiane anteriori al 1945 per il Who’s who in gay and lesbian history (Routledge, London & New York, 2000). Ha pubblicato, tra gli altri, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al Secondo dopoguerra, Il Saggiatore, 2015, e Italia Arcobaleno (Sonda, 2020). Oggi ha un blog che s’intitola “A caccia di guai” (https://giovannidallorto.wordpress.com).

Puoi raccontare la tua storia?
Sono entrato nel Movimento di liberazione omosessuale nel 1976, avevo 17 anni, stavo in un paese e mi ero accorto di non essere come tutti gli altri. Era un periodo in cui tutto era politica, quindi per me è stato abbastanza naturale avvicinarmi al Movimento, che era stato fondato nel 1971.
Per caso avevo trovato nella libreria di sinistra del paese un numero di “Fuori” e così ho preso contatto con loro. Quando sono andato a Milano per l’università, ho iniziato a partecipare alle riunioni del gruppo. 
Poi dal 1982 ho fatto un’esperienza di due anni e mezzo al Gruppo Abele di Torino, dove ho lavorato all’Agenzia stampa sui problemi dell’emarginazione, e nel 1985 sono tornato a Milano, dove era stata fondata la rivista “Babilonia”: ho cominciato a fare traduzioni per loro, rispondere alla corrispondenza, finché sono entrato nella redazione, diventando alla fine direttore, fino al 2000. Un anno dopo sono passato al mensile “Pride”, che ho diretto per altri dodici anni.
Nel frattempo avevo fatto parte di varie realtà del movimento gay. Sono stato anche presidente del Centro d’Iniziativa Gay di Milano, uno dei pochi gruppi italiani sopravvissuti allo sfascio generale del primo movimento gay, avvenuto a metà degli anni Ottanta.
Nella prima fase pioniera, quella di Mario Mieli e Angelo Pezzana, l’obbiettivo principale era rompere il muro dell’omertà. Questo piccolo gruppo, che veniva tutto dall’estrema sinistra rivoluzionaria, voleva che la sinistra parlasse di noi, anche a costo di provocare andando ai congressi di partito mezzo travestiti da donna. Perché il problema era che nessuno voleva parlare di noi: c’era da fare la rivoluzione e noi eravamo “solo” un problema “sovrastrutturale”, marginale… 
Dopo una decina d’anni, abbiamo infine ottenuto quel che volevamo, al punto che “Il manifesto”, “Lotta continua” e “Il Quotidiano dei lavoratori”, se facevamo qualche iniziativa politica, ne parlavano. Questo però ci ha mandato in crisi, perché dire solo “esistiamo anche noi!” non bastava più.
La crisi s’è risolta solo quando, a Palermo prima e a Bologna poi, è stato fondato l’Arcigay, con una linea molto più riformista. Lo slogan precedente era: “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”, ma Arcigay con le istituzioni ci dialogava, anche per risolvere il nuovo problema dell’Aids, e così ha dato vita alla fase che conosciamo. Negli anni avrei poi finito per far parte del Consiglio nazionale Arcigay e della sua Segreteria.
Qual era il rapporto tra il mondo omosessuale maschile e quello femminile, agli inizi?
Specifico che io non ho vissuto l’epoca iniziale, quella con Mariasilvia Spolato, Myriam Cristallo, Emma Allais: sono arrivato quando c’era già stato il chiarimento sul fatto che le donne non avevano intenzione di fare gli “angeli del ciclostile”, o la “commissione femminile” del movimento gay maschile.
Quando sono arrivato io era già in vigore un rigidissimo “separatismo lesbico” (alla Andrea Dworkin e Valerie Solanas), che ha avuto fine soltanto negli anni Novanta, quando s’è lavorato su proposte di legge, come quelle sul matrimonio o le discriminazioni, per le quali aveva più senso lavorare insieme. Però nel 1996 c’è stata la separazione fra Arcigay e Arcilesbica, perché il movimento gay maschile s’era trasformato sempre più in una federazione di luoghi d’incontro maschili, con cui le donne non avevano molto a che spartire. Da qui il nuovo divorzio consensuale, anche se non siamo mai più tornate/i al separatismo radicale  degli anni Settanta.
Con gli anni dicevi di esserti trovato sempre più in dissenso con il discorso politico che stava prevalendo. Puoi raccontare?
Probabilmente ciò è avvenuto anche per una questione generazionale. Certe idee oggi vengono portate avant ...[continua]

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