Secondo te, per capire la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq bisogna tornare agli anni ’70, in particolare al dopo Vietnam. Puoi spiegare?
Innanzitutto io credo che all’origine di questa guerra non ci siano semplicemente questioni di carattere economico o politico, ma soprattutto un progetto ideale, che ha non pochi elementi anacronistici e che appunto nasce negli Stati Uniti degli anni ’70.
A dare l’idea di quanto attraversava gli Stati Uniti in quel periodo basta l’immagine, famosissima, dell’ambasciatore americano in Vietnam che, alla caduta di Saigon, scappa sull’elicottero con la bandiera avvolta sotto al braccio. Questa è sicuramente l’immagine del momento più basso del potere americano, ma segna anche il punto in cui è scattato il meccanismo dell’inversione di marcia, promossa da gruppi che hanno cominciato ad attaccare frontalmente quelle che sembravano delle cose assolutamente normali, acquisite. Con una pulsione assolutamente anacronistica, infatti, è da allora che si è iniziato a mettere in discussione il fatto che l’ambiente debba essere difeso, che non bisogna usare le bombe atomiche, che la pace sia un valore, che la discriminazione razziale sia un fatto negativo, che il diritto debba prevalere sul potere e così via. Ovviamente c’erano anche dei soldi a disposizione e così sono nati quegli istituti, di cui uno dei più noti è l’American Heritage Foundation, in cui tutti questi punti sono stati esaminati e capovolti da un gruppo di ideologi della destra repubblicana americana. Ebbene, il gruppo di ideologi che oggi è attorno a Bush -ossia Wolfowitz, Richard Perle, Rumsfeld, Armitage (tra l’altro tutte facce da film di gangster americani degli anni ’50)- è tutta gente che ha circa sessant’anni, gente che viene dagli anni ‘70, dalla guerra fredda, da quegli istituti.
C’è un libro che, secondo me, è fondamentale per capire bene questa trasformazione dell’America ed è The Cold Six Thousand, un romanzo di James Ellroy, credo tradotto anche in italiano. Il libro comincia con uno a cui danno seimila dollari, i ‘cold six thousand’ del titolo, per ammazzare una persona e prosegue raccontando -tra l’altro in maniera splendida, anche letterariamente, con uno stile molto particolare- il grumo di potere che si agitava dietro le quinte negli Stati Uniti degli anni ’60, nell’era dei Kennedy. Le vicende che racconta certo sono ricostruite in modo romanzesco, ma sono anche in gran parte documentate e quel che ne esce è un libro di una violenza inaudita, sconvolgente. Ci troviamo, per esempio, il legame tra la destra repubblicana e il fondamentalismo religioso, c’è Howard Hughes -un magnate americano molto importante nella trama di potere degli Stati Uniti negli anni ’60: era il padrone di Twa e controllava anche Hollywood- legatissimo ai mormoni, che per lui erano gli unici che non erano stati corrotti dal comunismo e venivano utilizzati appunto come punta di lancia di questo conservatorismo radicale; c’è l’anticastrismo fanatico dei cubani di Miami. In The Cold Six Thousand tutta questa gente, questi quasi fascisti o fascisti all’americana, usano una frase ricorrente, “for the cause”, “per la causa”, che è quasi il loro motto. Ebbene, cercando su internet tutta la documentazione possibile su questa nuova destra americana, ho trovato la stessa frase in alcune dichiarazioni di Richard Perle e di altri esponenti del giro dei “neoconservatori”. Ne sono rimasto molto colpito: è un lapsus puramente stilistico, che però denota l’appartenenza a un mondo.
Alla metà degli anni ’70, comunque, questo gruppo decide che è necessario reagire su tutti i fronti alla crisi dell’America, hanno soldi, molti, e tra l’altro -col fallimento della spedizione per liberare gli ostaggi in Iran- in maniera stranissima, sei mesi prima della rielezione, la presidenza Carter va in crisi. Carter quindi non viene rieletto e chi arriva alla presidenza? La destra più radicale: Reagan. E ...[continua]
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