Che funzione ha avuto la scuola nell’integrazione dei minori stranieri a Genova?
In generale, possiamo dire che la scuola, insieme agli enti locali, è stato il luogo dove negli ultimi dieci anni si è misurato il processo di inclusione degli immigrati. Aggiungerei: con un ruolo di supplenza, ovvero in assenza di un progetto o di un disegno politico, e soprattutto in assenza di investimenti specifici. Questo non è un elemento secondario perché da una parte la scuola è stata, per gli immigrati, il punto di incrocio tra strategie di vita e opportunità di accesso a nuovi territori e nuove condizioni; dall’altra parte, rispetto ai minori, si è consumato una sorta di processo di adultizzazione che li ha portati a essere “cittadini a scuola e stranieri in città”. Un processo di adultizzazione funzionale nell’ambito delle relazioni quotidiane, ma che non ha condotto ad una reale acquisizione di cittadinanza. Vale a dire che la scuola è stata percepita e ha funzionato come luogo di accoglienza rimanendo però sostanzialmente isolata dall’insieme delle relazioni comunitarie. Molte famiglie di immigrati infatti hanno costruito una rete di relazioni multietniche nell’ambito della scuola, a cui però spesso non è corrisposta una reale capacità di costruzione di relazioni amicali, che non fossero esclusivamente su base etnica, in ambito cittadino.
Così, la scuola ha costituito un forte elemento di integrazione, ma nello stesso tempo anche un grandissimo alibi, perché ha fatto sì che altre componenti istituzionali si disinteressassero del problema. In questo senso l’autoreferenzialità scolastica, il suo sostanziale isolamento rispetto al contesto sociale, hanno funzionato come vero e proprio cuscinetto di compensazione rispetto alle tensioni sociali e razziali.
Detto questo, resta il fatto che la scuola da sola non potrà reggere l’impatto con queste nuove tematiche.
Bisogna tener conto che Genova non ha, in proporzione, un elevato numero di immigrati; ha però una percentuale di minori stranieri inseriti a scuola che è tra le più elevate a livello nazionale, e questa è una conseguenza dell’attenzione che Comune e scuole sin dall’inizio hanno dedicato al fenomeno. Parliamo di una città che, tranne qualche episodio verificatosi all’inizio degli anni ’90, non ha mai avuto tensioni razziali forti, nonostante la prima ondata migratoria si sia riversata tutta nel centro storico, modificandone totalmente il paesaggio umano e i contesti relazioni e sociali. D’altronde il percorso degli stranieri a Genova ha ricalcato i passi dell’immigrazione precedente, cioè quella dal Meridione, con una prima concentrazione nel centro storico, a cui è succeduta una distribuzione nei diversi quartieri.
Io poi credo che oggi la riflessione debba focalizzarsi sul tema della seconda generazione, su cui, nonostante l’esperienza francese, c’è un arretratezza culturale consistente: i modelli adottati in questi dieci anni, funzionali sostanzialmente a un’immigrazione adulta e soprattutto maghrebina, si stanno rivelando inadeguati a rispondere alle istanze avanzate dalla seconda generazione. C’è poi da sottolineare un altro elemento: il punto di riferimento della scuola per questo percorso di integrazione, almeno qui a Genova, è stato il processo che ha portato, nell’arco degli ultimi dieci anni, all’inclusione dei minori portatori di handicap.
Ma questo è stato un percorso “a macchia”, nel senso che buona parte delle esperienze didattiche, anche molto raffinate e con un ritorno in termini formativi molto elevato, si sono però consumate nell’esperienza diretta di un singolo insegnante. Oggi quindi dobbiamo capire quanto di quel percorso è ancora valido e quanto invece necessita di un riorientamento complessivo.
A Genova c’è anche una consistente comunità ecuadoriana, la cui presenza ha costretto a ripensare un po’ gli interventi. Ce ne può parlare?
Si tratta di un’immigrazione abbastanza recente e che però nel giro di due anni ha quasi raddoppiato le proprie presenze, fino a diventare la prima comunità straniera della città. Ebbene, in questo caso non cambiano solo i numeri, ma anche proprio le aspettative, le modalità di relazione all’interno della comunità etnicamente intesa, ma anche col resto della città. Tra i minori ecuadoriani, ad esempio, a differenza dei maghrebini, c’è una maggior attitudine a muoversi a gruppi, per bande. Inoltre ...[continua]
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