Letizia Bianchi insegna sociologia della famiglia a Scienze della formazione presso l’Università degli Studi di Bologna e fa formazione in corsi per educatori professionali. Lucia Marchetti insegna scienze sociali al Liceo classico L. Ariosto di Ferrara. Isabella Rinaldi, educatrice professionale/animatrice in strutture per anziani da oltre un decennio, insegna presso centri di formazione e cooperative sociali.

Il problema degli anziani e dei malati terminali sta diventando sempre più urgente. E’ un tema che coinvolge le politiche sociali, a livello di scelte culturali e strutturali, ma anche a livello individuale e più personale. La grande domanda è: come dare senso alla vita quando sta finendo? In questi momenti la relazione diventa la cosa più importante...
Lucia Marchetti. Il tema della relazione mi interessa sia come insegnante sia a livello personale. Mio padre è vissuto sei anni in una casa di riposo e, andandolo a trovare, cercando di dare un senso al mio stare là dentro, ho riflettuto sulla questione cruciale delle relazioni. Soprattutto, osservando l’agire, degli anziani, degli operatori, degli altri parenti, mi sono trovata spesso a pensare al modo di trasformare in positivo la vita dentro le cosiddette istituzioni totali, quelle istituzioni, cioè, che ti organizzano la vita, all’interno delle quali vivi, mangi, dormi, trascorri tutto il tuo tempo. E principalmente in quelle istituzioni dove sembra che la vita stia finendo.
Specie negli ultimi tempi, le normative hanno obbligato queste strutture a rispondere a parametri -di igiene, sicurezza, eccetera- che sono veramente “altro” dall’attenzione alla relazione. Le norme per l’accreditamento, per esempio, stabiliscono la metratura delle stanze, della cucina, il numero dei bagni in relazione a quello degli ospiti, quanti frigoriferi, come deve essere collocata la dispensa, la lavanderia, e così via. Un numero infinito di regole e di obblighi che vincola (e consuma) lo spazio in maniera abnorme, con scarsissima attenzione a chi poi dovrà abitare queste strutture e a quello che dovrà succedervi dentro.
Occorre quindi un grosso lavoro di ripensamento rispetto a queste ultime tendenze. Perciò mi sembrava importante che le persone che operano quotidianamente in questi luoghi, e che portano un fardello per la verità assai pesante, sia per la quantità di fatica fisica che per gli aspetti relazionali del lavoro -sono persone, donne perlopiù, quotidianamente a contatto con i corpi vecchi/malati e con la morte- avessero dei momenti in cui cominciare a riflettere e a elaborare il loro operato, insieme a qualcuno che magari di professione studia questi aspetti. Perché di solito in questi posti l’attività è così frenetica che non c’è mai il tempo per fermarsi a riflettere su cosa si fa e su come lo si fa.
Così ho contribuito a far incontrare l’équipe della Casa di riposo di Borgofranco sul Po in provincia di Mantova, in cui si trovava mio padre, con le allieve del Corso di formazione per animatrici diretto da Isabella Rinaldi, nel quale insegna Letizia Bianchi, proprio per cercare di far circolare le “buone pratiche” anche in questo settore.
Letizia Bianchi. Io insegno in una facoltà di Scienze della Formazione, in un corso per educatori professionali. Mi occupo quindi di formare le professioniste e i professionisti del lavoro di cura, che, per me, altro non è che la continuazione dell’opera materna.
Vent’anni fa sono stata una malata terminale -o perlomeno così ero stata diagnosticata. E’ evidente allora che la mia riflessione non può che partire da quella esperienza. Quando hai avuto una malattia oncologica, è impossibile non cominciare a pensare in modo diverso al fatto che si muore. Da sani è difficile costruire un pensiero sulla nostra salute e sulla nostra finitezza. Di solito ci comportiamo -perlomeno io ho fatto così- come se fossimo immortali.
Secondo la tua esperienza è importante il modo di reagire alla malattia, l’aspetto soggettivo...
Letizia. Innanzitutto penso che non ci sia un solo modo di reagire. In questi anni ho visto che ognuno reagisce a modo suo.  Ad esempio io nei primi tempi mi sono avvicinata a un’associazione di donne, però ci sono stata pochissimo perché non mi interessava “specializzarmi” come malata o ex malata.
L’importante è riconoscere che si è dentro un processo, per cui l’auto-mutuo-aiuto parte, sì, dalla tua malattia, ma poi diventa qualcos’altro. Si parte dal dolore per raccontarsi altre cose.
Io p ...[continua]

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