Emilio Jona, scrittore, studioso di canto popolare, vive a Torino. Dalla sua vasta bibliografia ricordiamo, per la narrativa, Un posticino morale, Scheiwiller, Milano 1984, e Inverni alti, ristampa, Interlinea, Novara 2005; per la poesia: La cattura dello splendore (Scheiwiller Milano l998); per la saggistica: Le canzoni della cattiva coscienza, Bompiani, Milano 1964 e Cantacronache, una avventura politico-musicale degli anni ‘50, Scriptorium-Paravia, Torino 1995. Il libro di cui si parla nell’intervista è Senti le rane che cantano, di Franco Castelli, Emilio Jona e Alberto Lovatto, Donzelli Editore.

Puoi raccontarci qualcosa di questa tua importante ricerca sul canto di monda?
Parto subito con una premessa: lavorando sul canto di monda, come per altro su ogni canto popolare, è indispensabile definire l’ambito e le modalità della ricerca, perché questo è un caso in cui il rapporto tra ricercatore e informatore è fondamentale. Esso cambia infatti a seconda della natura della ricerca e delle persone che vi partecipano (ricercatori e testimoni).
Mi spiego con degli esempi. Nel 1953 l’Ente Risi, una struttura vicina al padronato, che aveva lo scopo di promuovere la vendita del riso, produsse la prima ricerca e raccolta su disco di una scelta di canzoni della monda. La raccolta è molto importante perché fu il primo esempio di registrazione di questo genere di canto. La sua funzione era di accompagnare le kermesses organizzate dall’Ente Risi per promuovere, in Italia, la vendita di quel prodotto.
Ebbene, non si trova in quelle registrazioni, né un canto licenzioso, né un canto politico-sociale, né un canto anticlericale, perché si erano verificate due forme di censura: una dei ricercatori dell’Ente Risi, che non erano interessati a quel certo tipo di canto, l’altra delle mondine stesse che non cantavano agli emissari dei padroni i canti che le riguardavano più strettamente, a livello politico e sociale, e che per altro anche se li avessero cantati, sarebbero stati espunti dalla raccolta.
Nel 1960 io e Sergio Liberovici andiamo nel Vercellese, ci accompagna un leader locale del Pci, Silvio Ortona, bella figura di intellettuale comunista e di partigiano, poi segretario della Camera del Lavoro di Vercelli; e questa volta le mondine ci cantano quasi esclusivamente canti politici e sociali, esercitando così, forse, un’altra forma di autocensura.
Ma da dove nasce il tuo interesse per il canto popolare?
Nasce da Cantacronache. Eravamo un gruppo di intellettuali torinesi: c’erano Sergio Liberovici, Michele Straniero, Fausto Amodei, Giorgio De Maria, Italo Calvino e, più defilato, Franco Fortini. Nel 1958 decidemmo di contrastare la canzonetta gastronomica sanremese, di evadere “dall’evasione”, questo fu il nostro motto, e di inventare, in Italia, la canzone politico-sociale. Cominciammo a scrivere canzoni, fondammo una rivista, creammo dischi dei nostri canti e andammo in giro a cantare noi stessi le nostre canzoni, in case, circoli, meeting popolari.
Non avevamo certo accesso alla televisione o alla radio per il nostro preteso anticonformismo, ma ugualmente avemmo una certa notorietà, molti articoli su riviste e giornali, e poi una certa influenza sulla nascita dei cantautori. In quegli anni era profonda la frattura tra l’Italia a egemonia democristiana e quella comunista e socialista. Esistevano proprio due culture separate, due diverse tipologie di comunicazione.
Ma avvenne una cosa interessante: andando in giro a cantare, i contadini e gli operai che ascoltavano le nostre canzoni ci riproponevano a loro volta, in una sorta di baratto, i loro canti dimenticati. Erano canti della fine dell’800 e dei primi 20 anni del ’900, che la lunga parentesi fascista aveva violentemente cancellato perché si trattava, in tutta prevalenza, di un canto sociale, cioè di un canto di protesta legato ai problemi di una classe e alle sue condizioni del lavoro.
Peraltro il canto sociale non era mai stato studiato e raccolto dagli studiosi di folklore, come se non appartenesse a quel mondo popolare. Fu solo Ernesto De Martino, che in questo ci fu maestro, che incominciò a raccogliere e studiare, all’inizio degli anni ’50, questo canto, che definì “folklore progressivo”. Ci buttammo così subito in questa ricerca, privilegiando questi canti dimenticati. Emerse subito la differenza tra il canto popolare urbano e il canto contadino.
Il canto cittadino e operaio era ormai un canto già totalmente defunzionalizzato, non er ...[continua]

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