Com’è avvenuto l’incontro fra il movimento NoTav e il Laboratorio per la Democrazia di Torino?
Il Laboratorio per la Democrazia di Torino era nato, come altri movimenti, subito dopo la famosa invocazione di Nanni Moretti, sui temi della giustizia, delle leggi ad personam del governo Berlusconi, sulla tutela della Costituzione, sulla sanità. A differenza di quello di Firenze, dove avevano cercato di diventare subito una forza in grado di contrattare con il sindaco Domenici (e anche di fargli i dispetti, come presentare una candidata alternativa) qui a Torino una scelta di impegno politico diretto non c’era stata e questo aveva determinato una flessione.
La svolta è avvenuta nella primavera del 2005, quando hanno cominciato a circolare le copie del “progetto Torino”, il piano di sviluppo della città del dopo-Fiat. In questo progetto due persone che erano state piuttosto attive nel Laboratorio, Marco Revelli e io, abbiamo sentito un’aria che non ci piaceva, di rassegnazione estrema di fronte al fatto che Torino non poteva più essere la città industriale di prima. Abbiamo individuato nel progetto due difetti. Si mettevano insieme due cose che in un certo senso facevano anche a pugni fra di loro. La prima era quella di puntare moltissimo sulle grandi opere. Quindi le Olimpiadi, quindi il grosso impegno sulla ristrutturazione delle cosiddette spine, le aree, cioè, dove correva la ferrovia o erano situati i grandi complessi industriali, ora rasi al suolo. Insomma, molta edilizia privata, molto cemento, molto “sviluppo”. Dall’altra parte, in contraddizione quasi, c’era il compiacimento di avere complessi rock o punk, come quelli dei Murazzi, diventati famosi in tutta Italia, e quindi un’idea di città “leggera”, di una Torino alternativa, capace di attrarre anche sul piano turistico, per eventi che con la pesantezza e il cemento non c’entrano nulla. Però una cosa interessante è che i gruppi di potere torinesi, dovunque c’è da incamerare, come forse è ovvio, sono favorevoli. Nell’aria si respirava la somma di questi due fattori che apparivano molto affaristici tutti e due. L’apparente contraddizione si sanava in un punto e cioè che dello sviluppo del cemento e delle grandi opere non interessa tanto l’esito quanto il denaro che mette in circolo nel frattempo. Quindi, da un certo punto di vista, anche l’ipotesi sviluppista rompeva nettamente con la tradizione industriale della città.
Di fronte a questo facemmo un po’ di riunioni con alcuni amici, ad esempio Claudio Cancelli e altri. L’anima del Laboratorio è stata sempre laicissima, però avevamo mantenevamo i contatti con un gruppo interessante, la Scuola per l’alternativa, che tutti i mercoledì sera facevano delle affollatissime lezioni di sociologi, di tecnici, di antropologi, alle Missioni della Consolata. Gente brava, il rettore delle Missioni, Padre Antonio Rovelli, ha sempre messo a disposizione questi locali e ha mobilitato una quota di volontariato cattolico rispetto al quale il Laboratorio era stato sempre estraneo. Sulla base di quanto era emerso nel corso degli incontri, Revelli e io abbiamo fatto un documento decisamente antichiampariniano (Chiamparino è il sindaco di Torino), antisviluppista; un documento in cui l’espressione che ricorre più spesso è “la buona vita”. Noi dobbiamo progettare per i nostri discendenti una “buona vita” come alternativa a questo sviluppo acritico. Questo documento è stato mandato a circa 200 destinatari (i componenti del vecchio Laboratorio e qualche altro), dicendo: un gruppo propone che in futuro la linea del Laboratorio sia questa, rispondeteci. Pochi (tre o quattro) hanno risposto in modo ostile, soprattutto quelli che erano interni ad alcuni partiti, soprattutto ai Ds, e questo mi dà l’occasione per dire che la differenza fra la prima e la seconda edizione del Laboratorio è che il primo era a cavallo dei partiti mentre il secondo è tutto fuori. Molti tacquero e una settantina di persone risposero dicendo che andava bene. La sett ...[continua]
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