Nel tardo Ottocento e nel primo Novecento, a dividere la sinistra rivoluzionaria, prevalentemente europea, dalla sinistra -di matrice liberale- riformista in senso libertario, prevalentemente americana, fu essenzialmente il diverso modo in cui queste guardavano alla società. All’epoca si sarebbe detto il modo in cui si giudicava la società, anche se noi, oggi, possiamo anche dire il modo in cui, nel senso più lato, si giudica l’Occidente. In Europa, il mondo del capitalismo avanzato, della società borghese, della produzione e del consumo, era visto come qualcosa di estremamente negativo, quasi come il male che alligna nella storia e che, quindi, bisognava eliminare; cosa ottenibile soltanto con una rigenerazione totale, cioè con una distruzione che non lasciasse alcuna via di scampo all’esistente e, conseguentemente, con una ricostruzione che non poteva che ripartire dalle radici.
Al contrario, la sinistra libertaria americana guardava alla società del capitalismo avanzato, dello stile di vita borghese -che all’epoca tendeva ad allargarsi anche verso ceti sociali che borghesi non erano-, non tanto come ad un qualcosa di positivo in sé, quanto come ad un qualcosa di positivo nel suo costrutto di fondo. Quello che, cioè, i libertari americani scorgevano nella società dell’Occidente avanzato era la potenzialità che questa stessa società aveva di essere migliorata, quindi di portare verso una società migliore e più giusta. Quindi, mentre in Europa si riteneva che l’esistente dovesse essere distrutto fin dalle radici, perché in esso non ci sarebbe stato nulla di buono, in America si tendeva a guardare a questo stesso esistente scorgendone i lati positivi, cioè gli aspetti che sembravano poter permettere una libertà maggiore, maggiori possibilità per gli individui, tramite il meccanismo della concorrenza. Penso che sia da queste differenze che si origina il sostanziale riformismo dei libertari americani, ma non solo, perché anche in Europa, in una certa sinistra, anche socialista e anarchica (ad esempio lo spagnolo Ricardo Mella), vi era un afflato riformistico o “migliorista” radicale, cioè vi erano degli sperimentalisti, vi erano coloro che rifiutavano l’ethos della rivoluzione perché ne comprendevano la dinamica più vera, cioè, semplificando moltissimo, quella giacobina che porta al terrore.
I libertari americani (fra loro, comunque, anche assai diversi) sono stati un momento molto creativo nella filosofia politica moderna, e questo non solo per le loro proposte politiche. Alla metà dell’Ottocento, ad esempio, Lysander Spooner certamente pensava potesse essere allargato il “modello far west”, cioè una società di piccoli agricoltori, o di piccoli imprenditori, in grado di reggersi da soli -con la loro famiglia, la loro impresa-, proprio perché erano autonomi, liberi, sul territorio. Questo era, in fondo, un ideale che risaliva ai jeffersoniani del secolo precedente; era l’ideale, appunto, di una nazione di agricoltori indipendenti e autonomi che potevano benissimo costruirsi una società libera per loro conto, senza alcun bisogno di avere rapporti strutturati con l’esterno. Certo, in questa visione c’è molto di ingenuo, infatti non ha saputo fare i conti con ciò che è venuto dopo, cioè col fatto che il mondo capitalista si è invece allargato nella direzione opposta, nel senso di un’ulteriore strutturazione e stratificazione sia a livello sociale sia nella costruzione del potere. Nei primi decenni del Novecento, quindi in una situazione di capitalismo già più strutturato, William Greene, Joseph Labadie o Benjamin Tucker (che pure, alla fine della sua vita, arriverà quasi a dire che il capitalismo è irriformabile e quindi va distrutto), sosterranno invece che nell’Occidente avanzato vi sono i germi di una libertà possibile, ed è su questi che bisogna lavorare. Per questo scartavano a priori l’ipotesi rivoluzionaria che, secondo la loro esperienza, la loro lettura del moderno, porta irresistibilmente verso la dittatura, il terrore, la ghigliottina giacobina, eccetera. Questi non pensavano più all’ideale un po’ conservatore dell’agricoltore indipendente, ma situavano la loro analisi nelle grandi città, nei grandi centri urbani e industriali del nord, e insistevano sulla questione della proprietà non in relazione al pezzo di terra, ma in relazione al modo in cui, ancora oggi, la intendiamo noi, cioè la proprietà della casa e dei mezzi di produzione. Da qui la loro insistenza, in nome dell’ideale di auton ...[continua]

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