Sadegh, afgano, 23 anni, in Italia da quattro anni, è fuggito dal suo paese per evitare di essere arruolato nelle milizie talebane. Ha attraversato il Pakistan, l’Iran, la Turchia e il Mediterraneo per approdare, infine, sulle coste della Calabria. Oggi lavora come pasticcere in uno dei caffè più antichi del centro di Torino.

In Afghanistan, prima di partire, la mia vita era molto semplice. Andavo a scuola e quando tornavo aiutavo i miei genitori. Qualche volta giocavo con gli amici. Vivevo in un paesino, non era proprio una città, era un piccolo paese di contadini. Un bellissimo posto. Avevamo tanta frutta, non compravamo cose da fuori, veniva tutto dalla terra. Compravamo solo la benzina. Avevamo una vita tranquilla, finché purtroppo sono arrivati i talebani e hanno rovinato tutto.
La cittadina in cui abitavo si trova nel nord dell’Afghanistan, nella zona dove vive la popolazione di etnia hazara. Io stesso sono hazara.

Quel giorno avevo 14 anni, dopo mangiato, è venuto un mio amico e siamo andati a giocare a pallavolo. Quando sono rientrato con il pallone, mio papà mi ha abbracciato: “Guarda Sadegh, io e tua mamma abbiamo deciso che devi andare via”. Era arrivata la notizia che i talebani sarebbero entrati nella nostra zona arrivando dai territori pashtun. I pashtun erano insieme ai talebani a quell’epoca, e io vivevo proprio vicino ai confini con i pashtun. I talebani prendevano i ragazzi giovani e li arruolavano portandoli a combattere contro la nostra stessa gente. Mio padre mi ha dato dei soldi e mi ha detto che li dovevo legare intorno ai polpacci. L’indomani, la mattina molto presto, ho salutato mia madre. Mio padre mi ha accompagnato per un’ora poi è tornato indietro e ho proseguito da solo.
Ho camminato per quasi dodici ore. Dovevo passare una montagna molto alta, molto brutta, ed ero preoccupato, pensavo che sicuramente avrei incontrato qualche animale. Avevo paura. Superata la montagna mi sono fermato a fianco di una pietra a passare la notte. Ho mangiato gli ultimi panini che mi ero portato dietro. La mattina dopo sono rimasto lì dove avevo dormito e ho cercato di farmi caricare su un camion. Aspettavo che ne passasse uno, lo fermavo e gli chiedevo di portarmi a Kandahar. Alla fine un camionista mi ha preso, mi ha fatto salire e mi ha portato a Kandahar. Gli ho spiegato la mia situazione, le mie difficoltà, e sono stato fortunato perché mi ha aiutato un po’. Quando siamo arrivati a Kandahar mi ha trovato un taxi. Sono rimasto sette ore chiuso dentro quel taxi perché il proprietario doveva trovare altri passeggeri prima di partire. Mi diceva che se volevo potevo pagare da solo per quattro persone e saremmo partiti subito, ma io non avevo abbastanza denaro, avevo anche dato un po’ di soldi al camionista. Io aspettavo in macchina, perché eravamo in una zona talebana e a guardarmi in faccia si capisce subito che sono hazara. Di faccia siamo molto diversi da loro, siamo simili a quelli che vengono dalla Mongolia.
Faceva caldo, molto caldo. Quando ha trovato qualche altro passeggero siamo partiti, diretti verso il Pakistan. Passato il confine, sono arrivato dopo diverse ore nella città di Quetta. Ho parlato con il taxista e gli ho detto che i soldi per pagare non li avevo, ma potevo dargli l’orologio. Lui ha accettato. Mi ha portato in un hotel gestito da afghani.
I pochi soldi che avevo li usavo per pagarmi da dormire, e quasi non mangiavo. Poi un giorno sono andato a parlare dal proprietario dell’hotel, a spiegare la mia situazione, a dirgli che ero in difficoltà, che cercavo lavoro. Lui mi ha detto che di lavoro non ne aveva ma conosceva una persona che cercava un ragazzo. Dopo tre o quattro giorni mi ha portato in quel posto, era una pasticceria, e mi hanno preso a lavorare lì.
Io lavoravo e loro mi davano da mangiare, altro non avevo. Non avevo neppure un orario fisso, lavoravo tutta la giornata. Un giorno mi sono anche scottato, la pentola era troppo grande, piena di acqua bollente, non sono riuscito a sollevarla e mi sono scottato questa parte del corpo. Mi lasciavano dormire lì dove lavoravo. Ogni tanto mi davano un po’ di soldi.
Sono rimasto due anni a lavorare così. Nel frattempo ero riuscito a mettermi in contatto con mio papà. Il mio padrone dava la lettera a quelli dell’hotel, se qualcuno andava in Afghanistan se la portava dietro e cercava di consegnarla ai miei genitori o a della gente che abitava nella mia zona. Così raccontai a mio padre come stav ...[continua]

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