Sono arrivata in Burundi nel 1982. L’Africa è sempre stata il mio sogno. La mia giovinezza è coincisa con il ’68, che nel mio piccolo paese di provincia, è significato spalancarsi al mondo, un mondo oppresso e affamato a causa delle ingiustizie, di cui in qualche maniera scoprivamo di essere complici. Ecco, ho sempre pensato all’Africa come a un’opportunità per estinguere un po’ il debito, almeno a livello personale. L’idea era: “Vado e così faccio i conti con questo debito accumulato da secoli, insomma rendo almeno la mia parte…”. Beh, non è poi stato così in realtà…
Quando sono arrivata ho visto che la casa in cui noi abitavamo era molto diversa dalle casupole che la circondavano. La nostra era in muratura, con un piano di sopra, circondata dal cemento; insomma questo disagio della differenza che mi aveva angosciato qui in Italia, là era peggio che peggio. Tra l’altro angosciavo anche le mie sorelle missionarie perché se preparavano una torta per me era già una cosa… con tutti quelli che hanno fame!? Ecco, quella missione che avevo costruito così a tavolino, con l’illusione di annullare la distanza -vado a prendere l’acqua con loro, sto con loro, tutto come loro…-, mi veniva restituita come uno smacco personale schiacciante.
Tant’è che quando finalmente ho deciso di uscire, di avvicinare questo mondo africano che era oltre la mia porta, mi aspettavo l’accusa: “Vieni qui a sbatterci in faccia…”. E invece ricordo ancora l’incontro con questa donna, Maria, un’anziana vedova che viveva in una catapecchia di fronte a noi. Appena mi vide spedì il nipotino a cercare un seggiolino decente nella casa vicina, e con i pochi soldi che aveva lo mandò a comprare una Fanta per non offrirmi l’acqua che loro utilizzavano normalmente. Questa festa veramente mi sconvolse e lì capii che non potevo giocare la vita sulla giustizia, sul pagare il debito ai poveri, che non ci sarei mai riuscita. Mi toccava invece accettare la loro misericordia. Questo è stato per me veramente un capovolgimento che mi ha fatto abbandonare quell’ideale di giustizia che pretendevo dagli altri e da me stessa e che mi lasciava inquieta, con l’accettazione invece di questa distanza incolmabile tra noi e il povero. Compresi che la vita non poteva essere che impostata sulla misericordia cioè sull’accettare di essere perdonati in permanenza da questi poveri che non ti andavano a tirare fuori tutte le storie passate. Questa è la mia grande riconoscenza all’Africa, perché veramente non so dove sarei finita con la mia pretesa di giustizia.
Durante la prima terribile guerra del Congo, scoppiata nel ’96, il vescovo aveva detto: “Partite”, la gente scappava, da qui i parenti facevano pressione e così le sorelle sono partite… per poi venire qui a piangere davanti alla televisione. E’ stato terribile. Quando poi ci è stato dato di rientrare, ancora una volta dovevamo tornare penitenti e di nuovo questa gente che non ti rimprovera, che ti fa festa, che anzi ti dice grazie che sei tornata. Dopo, con la seconda guerra le suore sono rimaste, abbiamo imparato la lezione.
Nel Burundi non rimasi che due anni. Infatti l’allora presidente Bagaza, in conflitto con la Chiesa, cominciò ben presto a mandar via progressivamente tutti i missionari, alcuni espellendoli direttamente, altri, e fu il mio caso, indirettamente: il permesso di permanenza divenne annuale e allo scadere non veniva rinnovato. E così dopo due anni attraversai la frontiera -il Burundi è proprio alla frontiera con l’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo- e in mezz’ora ero nella mia nuova destinazione. Ho iniziato subito a lavorare con le ragazze. Mi appassionavo alle loro storie, ma in generale al destino della donna in quel contesto: incontravo queste ragazze, splendide, piene di vita, belle da tutti i punti di vista e dopo un po’ te le vedevi, appena adolescenti, incinte o seconde, terze mogli, iniziare una vita tribolata… Com’era possibile? Ho capito che l’approccio non poteva essere morale, insomma, doveva esserci una ragione per cui una donna si buttava via così, ...[continua]
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