Da tempo segue l’evoluzione della partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa. Può parlarcene?
Possiamo dire che, più o meno, si è sempre parlato di partecipazione perché il rapporto di lavoro subordinato, salariato, è problematico: dalla Chiesa al pensiero marxista, ad altri tipi di esperienze pratiche e teoriche, sostanzialmente è sempre stato visto come un rapporto asimmetrico, in cui la parte debole erano sempre i lavoratori e la parte forte gli imprenditori.
Di qui l’esigenza della regolazione o regolamentazione del rapporto di lavoro, e quindi di quella grande invenzione sociale, forse una delle più grandi, che è il contratto collettivo. E poi la legge perché laddove c’è il contratto collettivo quasi sempre, con pesi diversi, maggiore o minore, c’è l’ordinamento legislativo, ci sono leggi che regolano il rapporto di lavoro.
Tuttavia si è sempre cercato di dire: vediamo se si può far qualcosa che vada al di là, e questo qualcosa, schematizzando, può andare in due direzioni.C’è una prima direzione, prima nel senso espositivo, che è quella di dire: vabbé posto che c’è la proprietà che ci mette il capitale (ma anche il rischio) vediamo come si può modificare questo rapporto di lavoro, cioè se quelli che lavorano possono anche metterci dentro il naso, essere presenti negli organi decisionali dell’impresa.
Questa, con un ossimoro, viene definita "partecipazione antagonistica”; sono, ad esempio, i consigli di gestione tipo quello della Olivetti, su cui l’anno scorso è uscito un bel volume di Stefano Musso; si tratta sostanzialmente di un controllo, ovvero vediamo come va l’impresa, come si possono ridurre i danni sociali, o addirittura come si lavora, che poi è un tema di attualità ancora adesso alla Fiat.Questo è un modello, ma quello prevalente, pur con le sue diversità, prevede invece una strada più collaborativa. Cioè vediamo se si può migliorare il rapporto di lavoro anche oltre le disposizioni dei contratti, oltre le disposizioni della legge.
Rimane il rapporto di lavoro, rimane la legittimazione della proprietà e del profitto, ma conta il modo di dividere il profitto: ci si può interrogare se basti il contratto collettivo o addirittura chiedersi quale contratto collettivo, se quello nazionale o quello aziendale.
Detto questo, va anche precisato che complessivamente la partecipazione, salvo in Germania con la co-determinazione, non è diventata dominante.
Cioè le condizioni dei lavoratori, a parte questa crisi, sono via via migliorate senza passare necessariamente attraverso forme esplicite di partecipazione. Sono migliorate attraverso contratti, leggi, politiche del personale più raffinate, più intelligenti e più selettive nel senso buono.
E quando le condizioni sociali di una classe o di un gruppo di lavoratori migliorano, la tensione verso la modificazione del rapporto di lavoro dipendente diminuisce.
Quindi in effetti noi siamo arrivati ai nostri ultimi decenni con una netta prevalenza dei contratti sulla partecipazione.
Il contratto collettivo, come dicevo, è una grande invenzione: è una procedura, un compromesso: a volte prevale l’imprenditore, a volte prevalgono i sindacati. Nella cultura popolare sindacale si dice che c’è un contratto cattivo e uno buono, nel senso che si alternano. Lo dice anche il buon senso che non ci possono essere sempre contratti che vanno bene, perché poi bisogna comunque disporre di aziende che li supportino.
Tuttavia l’idea della partecipazione resiste. Per varie ragioni. La prima, strutturale e di lungo periodo, è l’emergere di attori terzi, di cui uno è lo Stato.
Ora il prevalere, nella fascia nord del mondo, di regimi democratici, fa sì che si sia fatta strada l’idea che se c’è la democrazia politica, dovrebbe esserci anche quella aziendale, una democrazia economica. Un concetto non così semplice da applicarsi perché l’azienda è un organismo gerarchico (a meno che non si tratti di una cooperativa, in cui i lavoratori decidono del loro lavoro come pure del funzionamento dell’impresa). E poi è intervenuto un altro attore, che può fare da volano: il manager. Cioè la distinzione tra proprietà, capitale e chi dirige l’impresa ha rilanciato l’idea della partecipazione, perché il consenso convinto dei lavoratori può essere un ulteriore elemento di rendimento e legittimazione nei confr ...[continua]
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