Elide M. Taviani, nata a Genova, ha viaggiato molto, soprattutto in America Latina. Si dedica all’educazione e alla cooperazione allo sviluppo con l’Ong Asal. Il libro cui si fa riferimento nell’intervista è Sulle orme di Maria. Storie di donne di qua e di là dal mare, De Ferrari, 2010 (per informazioni: info@asalong.org).

Nel 1973, quando ci fu il colpo di Stato, tu eri in Cile...
Sono arrivata in America Latina per caso, perché uno dei miei fratelli era volontario in Cile con la moglie, così quando nacque la loro figlia andai a trovarli e iniziò un innamoramento per il continente latinoamericano. Fu come un colpo di fulmine, avevo diciott’anni e rimasi proprio affascinata dal Cile. Era il primo periodo di Allende (1971), quindi c’era anche tutto un entusiasmo, un fermento particolare; poi sono tornata nel ‘73 e proprio di quei giorni tratta il mio primo racconto.
Devo dire che, insieme a piazza Fontana, quella è stata l’esperienza che ha condizionato il mio impegno sociale e politico per tutta la vita.
Quando ci fu Piazza Fontana io avevo diciassette anni più o meno. Ero cresciuta come figlia di partigiano e avevo vissuto tutti i racconti della Resistenza; la guerra e l’occupazione nazista erano come una cosa mostruosa che era stata sconfitta grazie ad alcune persone, fra cui anche mio padre e mia madre. Piazza Fontana fu proprio come il ritorno di un mostro che nella mia infanzia davo per sconfitto, e anche uno shock personale molto forte. Il golpe in Cile fu una cosa altrettanto tremenda: avevo compiuto 21 anni pochi giorni prima, ero assolutamente impreparata, fu un trauma emotivo, e anche fisico, veramente notevole.
Mi trovavo in un villaggio del Sud, nella zona mineraria del carbone, la regione più povera del Cile, in parte lo è tuttora, ed era quella che più di tutte aveva beneficiato del periodo di Allende: col governo socialista era migliorata tantissimo. Infatti nel giro di due anni avevo visto una differenza anche di colori: c’erano nuove attività, nuovo fermento. Tutta la regione di Arauco aveva fatto un salto di qualità enorme e infatti fu una delle più bastonate dal golpe.
Dopo il colpo di Stato, ai primi di settembre, tornai in Italia. Ero andata laggiù per un breve viaggio familiare, non avevo intenzione di fermarmi. Al rientro in Italia, però, qualcosa era cambiato e cominciai ad occuparmi di profughi, presi contatto con alcuni gruppi della sinistra e con amici e compagni che scrivevano e raccontavano quello che succedeva in Cile.
In quei giorni sui giornali italiani si leggevano cose pazzesche. Per tutto un periodo si disse che il generale Pratt, fedele alla democrazia, marciava da Punta Arenas su Santiago; una cosa geograficamente impossibile tanto più in inverno (in settembre in Cile è inverno), perché Punta Arenas si trovava in mezzo al ghiaccio. È stato il primo impatto col danno che può fare il giornalismo ignorante, al di là del giornalismo prevenuto.
Quando poi fra dicembre e gennaio sono arrivati i profughi cileni, la dinamica è cambiata ancora: ognuno portava una sua visione. Tenete presente che si trattava di persone molto provate: arrivavano dall’ambasciata italiana dove spesso erano entrati saltando un muro con alle costole i soldati armati, e dove erano rimasti rinchiusi per settimane o mesi. In Italia era stato emanato un decreto straordinario, per cui molti profughi erano stati accolti dallo Stato; ciononostante erano in uno stato di stress veramente tremendo e c’erano anche molte tensioni fra di loro. Questo fa parte anche della normalità.
Ho pensato tante volte a come raccontare questa cosa. Ho ancora un diario di quei giorni pieno di parafrasi e nomi in codice. Col tempo mi sono convinta che in quell’evento storico, ma anche nella storia in genere, la parte forse più vera è il vissuto delle persone più che i fatti in quanto tali. Così ho cercato di raccontarla a partire dal mio vissuto, ma anche puntando l’obiettivo su una bambina, figlia di volontari italiani, che si era trovata improvvisamente in una situazione estrema e aveva reagito a modo suo.
Ad esempio dal momento del golpe non ha mai più nominato i compagni di giochi che erano figli di perseguitati. Aveva poco più di due anni: è un’operazione difficile da comprendere sul piano psicologico. Ricordo che in occasione di una visita a un’amica, moglie di un arrestato (abbiamo saputo dopo che era sotto tortura in uno stadio), quando la piccola aveva visto i loro bambini, era stata molto cauta: s ...[continua]

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