Si è tornati a parlare di merito. Vorremmo capire meglio la questione e quali sono le novità positive, ma anche i limiti delle proposte in discussione. Ad esempio, cosa succederà in una classe e davanti ai genitori quando sarà certificato che quell’insegnante non è competente?
A parole potrebbe succedere molto: il documento governativo sulla "Buona scuola” dice esplicitamente che "Ogni scuola deve poter schierare la miglior squadra possibile” per giocare la partita dell’istruzione. Sembrerebbe lecito inferire da affermazioni di questo tenore, che nella "Buona Scuola” che verrà non ci sarà posto per insegnanti incompetenti. Né per insegnanti assenteisti e poco impegnati nel loro lavoro.
A fronte di questo apprezzabilissimo sogno, però, la realtà per ora è l’assunzione indiscriminata dei 150.000 precari della scuola (un numero circa tre volte maggiore dell’organico scoperto), tra i quali temo non ci siano solo insegnanti di grande valore e competenza.
Non è poi solo una questione di competenza, ma anche di corrispondenza tra le caratteristiche dei potenziali insegnanti e le esigenze di studenti che hanno bisogno di un’offerta formativa al passo con i tempi. Difficile pensare, ad esempio, che i 916 stenodattilografi che verranno assunti per chiudere definitivamente le graduatorie a esaurimento possano insegnare qualcosa di davvero utile ai giovani di oggi. Anche senza arrivare a questo caso estremo, pensiamo agli insegnanti di francese, magari ben preparati e competenti, ma purtroppo meno utili, nel terzo millennio, di docenti che sappiano insegnare inglese, arabo o cinese.
Renzi e il suo staff pensano che con la formazione questi problemi si possano risolvere come con una bacchetta magica. Faccio fatica a crederlo, pensando ai due esempi che ho appena fatto.
Misurare la qualità dell’insegnamento è molto difficile; se ne sta discutendo in tanti paesi: cosa si misura, come e chi valuta?
È vero: la valutazione di un insegnante o di una scuola è molto difficile e nessuna soluzione è perfetta.
L’autovalutazione, ossia lo strumento preferito da molti insegnanti e sigle sindacali nel nostro paese è quello che meno convince, almeno me. Chi tra i docenti predilige questa forma di valutazione, sarebbe disposto a utilizzarla anche per i propri allievi? Certo, ogni processo di valutazione deve combinarsi con una riflessione personale sulle informazioni che il processo ha fornito, ma le conclusioni non possono essere autoreferenziali. In Italia tutti, o almeno tutti i maschi, pensano di essere degli ottimi Ct per la Nazionale di calcio. Lo stesso accade nella scuola: nei dati che ho visto su esempi di autovalutazione, tutti gli insegnanti si giudicano buoni o ottimi.
All’estremo opposto ci sono sistemi di valutazione che si basano su parametri rigorosamente oggettivi, come la misurazione degli apprendimenti e delle competenze degli studenti ossia test, come quelli dell’Invalsi. Per la precisione, nessuno pensa che si debbano usare i livelli di apprendimento e competenza degli studenti, perché sono ovviamente influenzati dalle condizioni di partenza e dal contesto sociale e familiare. Esistono però tecniche statistiche che consentono di calcolare le variazioni degli apprendimenti e delle competenze attribuibili a un processo formativo, opportunamente depurate dagli effetti di contesto: il cosiddetto "valore aggiunto”. Penso che questi siano strumenti molto utili per la valutazione delle scuole o degli insegnanti di una sezione all’interno di una scuola, ma non devono essere gli unici strumenti utilizzati, perché non possono cogliere tutta la complessità del lavoro dei docenti. E soprattutto non possono essere usati per valutare i singoli docenti per un motivo ovvio: l’insegnamento è un gioco di squadra. Se gli alunni sbagliano il compito di matematica, è colpa del docente di questa materia, oppure di quello di italiano a causa del quale non sanno leggere e capire le domande?
In posizione intermedia tra l’oggettività degli apprendimenti e la soggettività dell’autovalutazione, stanno le procedure ba ...[continua]
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