Il tema è quello dell’art. 18. Vorremmo provare a capire di cosa si sta discutendo oggi, anche alla luce delle modifiche già introdotte con la riforma Fornero. Può intanto aiutarci a districarci tra le varie tipologie di licenziamento?
Provo a spiegare in parole semplici. Diciamo che le tre categorie di cui sentiamo parlare nei giornali sono il licenziamento discriminatorio, il licenziamento disciplinare e il licenziamento cosiddetto economico; tutte e tre erano già state sviscerate e discusse proprio due anni fa, in occasione della legge Fornero, perché si era proposta la stessa problematica: il governo Monti voleva limitare la reintegrazione esclusivamente al licenziamento discriminatorio, come avviene in tutto il mondo. Il licenziamento discriminatorio è nullo anche presso quelle legislazioni che tutelano meno il lavoratore; è un principio pacifico perché è aberrante che uno possa essere discriminato per una questione di razza, religione, sesso, o anche di età, come le ultime direttive comunitarie hanno precisato.
Nello specifico era stata avanzata la proposta di eliminazione del reintegro nei confronti del licenziamento disciplinare: lo si voleva monetizzare. Il compromesso cui si era arrivati era stato di limitare fortemente la possibilità di reintegrazione. Il cosiddetto licenziamento disciplinare può essere motivato da una giusta causa o da un giustificato motivo soggettivo e -in estrema sintesi- scatta quando il lavoratore viene accusato di aver compiuto un inadempimento contrattuale. La definizione di licenziamento per "giustificato motivo soggettivo”, che troviamo già nell’art. 3 della legge 604 del ’66, prevede in particolare che ci sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, e in questa ipotesi, da sempre, il datore di lavoro ha la possibilità di licenziare. Poi c’è la "giusta causa”, che invece è una definizione che troviamo nel codice del ’42: "una causa che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro”, e che dava e dà diritto al licenziamento in tronco, senza neanche un preavviso (mentre invece il licenziamento "per giustificato motivo soggettivo”, dava diritto al preavviso).
Bene, fino alla Fornero, se non c’era né giusta causa né giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro era sempre condannato alla reintegrazione.
Con la Fornero si è inserita una nuova formulazione che spezza la fattispecie sotto il profilo sanzionatorio, cioè i concetti e le categorie dovrebbero rimanere gli stessi, ma se il giudice accerta l’insussistenza del fatto, oppure, se accerta che la fattispecie è già prevista fra le sanzioni conservative presenti nei contratti collettivi (faccio riferimento a rimprovero scritto, multa, sospensione dal lavoro in caso di infrazioni non così gravi da giustificare il licenziamento); ecco, se si rientra in quelle fattispecie, allora il lavoratore ha diritto alla reintegrazione. Altrimenti c’è un’indennità da 12 a 24 mensilità.
La giurisprudenza si è dovuta un po’ orientare in questi due nuovi concetti. Diciamo che la novità più grossa riguarda il concetto di insussistenza.
Molti giudici, e prima di loro la dottrina che ha affrontato la questione, hanno evidenziato un effetto paradossale di un’interpretazione troppo letterale di questa norma, perché significherebbe che se io commetto un fatto lievissimo, e cioè -in ipotesi- guardassi male il caporeparto una mattina, davanti a dieci testimoni, potrei perdere il posto di lavoro in quanto il fatto storico "sussiste”. Non occorre spendere molte parole per evidenziare come sarebbe veramente paradossale.
Ricordo un mio caso in cui il datore di lavoro aveva licenziato il lavoratore perché aveva scritto in una mail "in questo gruppo aziendale parlare di pianificazione è come parlare di psicologia con un maiale”. Questa fattispecie evidentemente non è prevista tra le sanzioni conservative, perché non troveremo mai un cont ...[continua]
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