Si è tornati a parlare di merito e pare si vogliano prendere provvedimenti precisi, di incentivi economici. Lei cosa ne pensa, anche alla luce delle esperienze fatte all’estero?
Direi che sono un po’ allibito di fronte al discorso che si fa in Italia sul merito. Evidentemente sono molto influenzato dal dibattito in corso in Francia, ma anche oltreoceano, dove nessuno parla di merito, oppure se ne parla a proposito degli studenti, non certo degli insegnanti, e comunque si critica molto il concetto. Pertanto non riesco a capacitarmi della passione e dell’interesse suscitato in Italia intorno a un concetto molto fumoso, su cui oltretutto si è lavorato pochissimo, perché i professori italiani di scienze dell’educazione non si occupano di queste cose, si occupano di Aristotele, Platone, Cicerone, e i pochi economisti dell’educazione si occupano d’altro e neanche loro parlano di merito.
La realtà è che ci sono docenti bravi e altri meno bravi. Si può poi discutere della loro remunerazione, di come pagare chi è più competente, ma il merito non c’entra niente. Infatti nel mondo anglosassone e nel mondo francese, giustamente a mio parere, quando si parla di merito si pensa agli studenti, mai agli insegnanti.
La situazione italiana è molto arruffata, per usare un eufemismo, cioè si vuol valutare il merito degli insegnanti e al contempo più o meno tutti possono fare gli insegnanti: bravi, non bravi, competenti, non competenti, formati, non formati; una volta superati i concorsi si ha il diritto ad avere un posto nell’insegnamento. Ma la vera questione sta proprio nella formazione e nella selezione degli insegnanti, in una politica seria del personale insegnante: quanti ne occorrono, come si devono preparare, qual è il loro statuto giuridico, quali carriere si possono intraprendere nell’apparato scolastico e poi quale retribuzione prevedere.
Effettivamente molti dicono che in assenza di una selezione iniziale, ogni discorso sulla valutazione perde di significato.
In Europa il problema viene affrontato con estrema cautela, perché tutti sanno che la questione della valutazione degli insegnanti è una bomba, un ordigno difficile da maneggiare, che può esplodere in qualsiasi momento, perché il mondo degli insegnanti è organizzato in un certo modo, e anche le politiche scolastiche hanno le loro dinamiche perché in politica ci sono molti insegnanti e poi ci sono le mogli o i mariti dei politici che fanno gli insegnanti, insomma, ci sono centinaia di migliaia di persone in ballo.
Quindi in Europa si adotta molta precauzione e perlopiù si evita di parlarne. In Italia, la questione è stata sollevata in particolare da Attilio Oliva, dell’associazione Treellle, all’inizio subendo molto l’influenza del dibattito americano. Già qui andrebbe sottolineato che parliamo di situazioni molto diverse: negli Stati Uniti esiste una forte segregazione sociale ed etnica, che in Europa non c’è ancora, per fortuna. Per esempio, a distanza di cinquanta metri negli Usa si può avere una scuola frequentata solamente da studenti bianchi e un’altra frequentata da studenti di colore: una è bellissima e l’altra è uno sfacelo. Negli stati del Sud degli Stati Uniti la situazione è addirittura drammatica. Anche da noi c’è la discriminazione sociale, eccome, ma è meno visibile, meno lampante, quindi l’urgenza di trattare la questione della valutazione degli insegnanti assume significati diversi. Negli Usa la maggioranza degli insegnanti sono di colore; la professione è squalificata; le ingiustizie sono enormi.
La valutazione degli insegnanti risulta da questo contesto e in particolare dalla pressione dei ceti medi, in maggioranza bianchi, per avere insegnanti competenti nelle scuole frequentate dai figli. Ci sono anche altre ragioni che adesso non evochiamo.
Uno dei punti su cui tutti sono d’accordo, soprattutto in Europa, è che non ci si può più accontentare di uno stipendio basato unicamente sull’anzianità, occorre ...[continua]
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