Pietro Omodeo (Cefalù, 1919), figlio del grande intellettuale Adolfo, amico di Benedetto Croce, ha studiato presso la Scuola Normale di Pisa, laureandosi con Giuseppe Colosi. Ha insegnato Biologia, Zoologia, Zoogeografia in varie università, per poi diventare direttore dell’Istituto Zoologico di Siena. È membro dell’Unione Zoologica Italiana (Uzi) e del Coordinamento Nazionale di Biologia Teorica (Cnbt). È uno dei padri della moderna zoologia italiana e internazionale.

Da dove nasce il suo amore per le scienze naturali?
Mi accorgo, ora soprattutto, che l’amore di mio papà per le scienze naturali ha avuto un forte influsso su di me. Quando eravamo a Napoli, dal 1929 in poi, andavamo in vacanza a Positano, che allora era un paese quasi completamente disabitato, perché moltissima gente si era trasferita a New York, a Little Italy. E non esisteva corrente elettrica, non esisteva acqua nelle case e nemmeno fognature, ovviamente, perché il paese è su un pendio molto scosceso. E allora, fin dalla tenera età, con la brocca andavo a prendere l’acqua alla fontana più vicina. Si andava su e giù per queste famose scale. Scale e scale, nient’altro, c’è una famosa canzone…
"Scalinatella”…
Sì, "scalinatella”. Ricordo che, essendo logorate al centro, ripianavano con il cemento il gradino, e poi, perché non si scivolasse, con una specie di rullo con punte, lo rendevano antiscivolo bucherellandolo tutto. Per quelle scale si entrava in contatto con un tipo di vita completamente diverso, quello dei pescatori o di chi aveva un piccolo allevamento di maiali, frammisto a qualche vacca, come si usava allora.
Ricordo soprattutto i muri a secco, perché tutti i giardini, e ce n’erano tanti a Positano, erano retti da muri a secco che avevano degli sfiatatoi per far passare l’acqua quando veniva una pioggia un po’ violenta, e dentro questi buchi c’erano lumache, chiocciole, lucertole, ogni ben di Dio… Ricordo la scoperta delle uova delle lucertole e la volta che una mi si ruppe e dentro c’era ancora la lucertolina a buon punto, ma certamente non in grado di sopravvivere.
Poi la sera si usciva a passeggio al chiaro di luna e se non c’era il chiaro di luna si usciva col lanternino, quelli tradizionali a parallelepipedo; ma in branco, tra noi ragazzi, si usciva solo col chiaro di luna. Ricordo bene che, secondo una tradizione molto antica, papà mi insegnava i nomi delle stelle e a riconoscerle. Quindi a colpo riuscivo a riconoscere l’Orsa maggiore, l’Orsa minore e alcune delle costellazioni lì vicino, e a individuare la stella polare, che, come si sa, è molto importante per tutta la storia della navigazione. Mi ha insegnato i nomi degli alberi, a riconoscerli e il fatto che non tutti crescono alla stessa altezza; mi ha insegnato a riconoscere i pioppi, che vogliono l’acqua vicino, le querce, che sono la pianta tipica di tutta l’Italia e molti secoli fa coprivano tutta la penisola, mentre ormai sono ridotte a poco, il leccio che ama molto le terre calde, e arriva a Verona. Poi la zia Dina, detta la zia bella, che era anche la mia madrina e aveva fatto le scuole normali, cioè le magistrali, mi insegnava i nomi di tante piante, quelle da fiori, soprattutto, perché faceva parte del programma per le maestre.
Per quanto riguarda invece insetti e conchiglie, mi servì un regalo molto prezioso che ho ancora in istituto, il Figuièr, che è un libro dell’Ottocento sulla vita degli animali, anche ben tradotto dal francese e con belle incisioni. Ricordo una delle ultime, che rappresenta l’urangutang che si ribella ai soprusi umani, e con una mano stronca la lancia di un portantino e con l’altra dà un colpo al viaggiatore. E poi la lettura di Fabre che parla molto dei costumi degli insetti, fra cui lo scarabeo sacro e la palla di sterco che si porta a spasso per darla da mangiare poi alla prole. Quindi un po’ le letture, un po’, appunto, gli insegnamenti di mio padre e di mia zia, mi hanno fatto nascere l’amore per le scienze naturali.
Nel ’36 consegue la maturità classica al liceo San Nazzaro.
Sì, ho finito il liceo molto presto, perché ho saltato l’ultimo anno, il che, però, voleva dire presentare tutto il programma del liceo, del triennio, dalla A alla Z, con tutta la Divina Commedia… Devo confessare che l’Inferno lo conoscevo bene, il Paradiso, che è difficile, non tanto bene, del Purgatorio invece sapevo molto poco. Su questo però mi è venuto incontro il penultimo papa, che ha detto che il Purgatorio non esiste, quindi avevo fatto bene… Poi ho fatto il concorso alla Normale, dove sono arrivato molto giovane.
A che età si è laureato?
A vent’anni. Ricordo che l’anno dopo di me alla Normale è arrivato Ciampi, che allora studiava lettere; era molto portato alla filologia, ma poi, dopo essersi confrontato con la vita militare e aver scoperto l’interesse per l’economia, ha fatto una carriera ben diversa dalla mia di zoologo. Sì, Pisa era una delle Università migliori d’Italia, se non proprio la migliore. A questo contribuivano le scelte molto felici dei professori, ma anche il caso, perché erano molto pochi gli studenti a Pisa. Ricordo la tradizionale rivalità tra Pisa e Pavia. Ogni anno si faceva come tra Oxford e Cambridge la regata sull’Arno o sul Ticino. E siccome a Positano avevo tanto vogato nelle barche da pescatori, che sono pesanti, ero considerato un buon membro dell’equipaggio. Gli altri erano quasi tutti degli irredenti, a cui il concorso della Normale riservava una parte dei posti. Gli irredenti erano coloro che abitavano l’altra sponda e che, appena finita la Prima guerra mondiale, andavano assimilati nel modo migliore. Quindi c’erano quelli di Zara, quelli del Lussinpiccolo. Ecco, gli irredenti, essendo abbastanza corpulenti, erano buoni vogatori anche loro dell’armo di Pisa. Due di loro divennero anche bravi naturalisti.
Diceva dei bravi professori… Chi sono stati i suoi maestri?
Il primo anno trovai un zoologo di grande valore, Umberto D’Ancona. Subito, alle prime lezioni, capii che c’era un abisso tra quello che avevo studiato per il liceo e quello che invece mi veniva offerto da D’Ancona, il quale entrava nel vivo di certi problemi che sarebbero diventati d’attualità soltanto trenta, quaranta anni dopo. Per esempio, la struttura delle proteine, ma anche la loro origine. Un tema che allora sembrava di difficilissima risoluzione e che però lui propinava a noi studenti del primo anno. L’anno dopo, D’Ancona andò a Padova e in sua vece arrivò Colosi, con cui poi feci la tesi. Colosi aveva una statura scientifica molto grande, era molto più vicino alla zoologia, meno interessato ai grandi problemi e molto critico nei riguardi dell’evoluzionismo. Ma critico in senso positivo. Diceva: "Attenti, queste tesi tanto diffuse presso gli evoluzionisti non rendono sufficientemente conto”, "Guardate che perché l’evoluzione funzioni bisogna superare queste difficoltà”. Era tutto un problema di logica che non è mai più stato affrontato da altri, ufficialmente, nel largo pubblico, per decine d’anni. Poi Colosi aveva un grande interesse per la fisiologia degli animali. Fra l’altro, e anche qui il caso è buffo, eravamo conterranei, perché sopra Cefalù, dove sono nato io perché mio padre aveva ottenuto lì una cattedra di insegnamento, ci sono nelle Madonìe due cittadine, Petralia sottana e Petralia soprana, per arrivare alle quali bisogna arrampicarsi lungo strade molto ripide e dove, come allora in tanti paesi sperduti sulle montagne, c’erano le sottoprefetture. Ecco, Colosi era nato lì, perché suo padre era un impiegato di una sottoprefettura, il cognome infatti è siciliano. Poi aveva avuto occasione di girare un po’ l’Italia e aveva studiato soprattutto a Cagliari, dove recentemente mi hanno chiamato per la commemorazione, che ho fatto molto volentieri e con molta commozione, perché a Colosi devo veramente molto.
Un terzo insegnamento decisivo per me è stato quello di Alberto Chiarugi, il botanico, che aveva anche avuto molto interesse per l’embriologia, una disciplina abbastanza complicata, di origine molto antica perché le prime osservazioni embriologiche ci sono niente di meno che in Aristotele. Dunque Chiarugi seguiva tutti i problemi propedeutici alla genetica, che riguardano la formazione e la trasmissione del patrimonio ereditario da una generazione all’altra. Quindi i cromosomi e il modo in cui si ricombinano. Per molti genetisti la ricombinazione dei cromosomi controllerebbe tutta la genetica, e invece no, perché ci sono molti animali nei quali non c’è la riproduzione tradizionale, ad esempio i partenogenetici che sono quelli che si riproducono per semplice scissione. E anche queste cose riecheggiavano quello che diceva Colosi dall’altra parte: attenzione, per come sono oggi impostati, la genetica e l’evoluzionismo non danno risultati soddisfacenti perché sono troppe le eccezioni. Io ancora ci sto "macinando” su questi temi. In biologia si sa bene che i cromosomi nelle piante sono molto più evidenti e ben visibili, quindi in botanica si possono seguire molto bene i processi della maturazione nelle uova e negli spermatozoi, ma questo nelle specie in cui ci sono maschi e femmine, perché ad esempio nei lombrichi, che invece sono ermafroditi, questi problemi si presentano in una luce totalmente diversa. Quindi, alle lezioni di Chiarugi le trattazioni di problemi in corso venivano trasferite direttamente dalla letteratura scientifica alla cattedra.
La quarta persona molto brava e importante che poi è diventata anche rettore di Pisa, era il professore di chimica organica della facoltà di farmacia, Remo De Fazi. Aveva un modo di insegnare terribile ma anche molto stimolante; durante la lezione interrogava: "Allora, come ho detto nella lezione scorsa, ricorderete certamente, si può ottenere il trasporto di questo gruppo di atomi in un’altra molecola con questo espediente. E ora lo vedremo nel caso di queste molecole…”. Per lui queste erano cose normali perché i farmacisti già allora lavoravano sulle modifiche delle molecole. E tenete presente che a lezione eravamo quattro gatti, sette farmacisti e quattro naturalisti, il che era un grande privilegio perché c’erano discipline, invece, in cui agli esami c’erano quattrocento allievi! E infatti ricordo che esisteva la cosiddetta propina d’esami, si chiamava così: per ogni esame fatto il professore riceveva una cifra, per altro modesta, che però serviva a equilibrare il suo compenso rispetto a chi aveva pochi studenti.
Dicevo della modifica della molecola: non vuol dire soltanto preparare qualche cosa per la farmacia, ma anche capire il metabolismo, come l’organismo si prepara o no a certe altre molecole. Per esempio, le vitamine devono supplire all’organismo che non riesce a sintetizzare certe proteine. Anche nell’alimentazione, alcuni aminoacidi non vengono sintetizzati dall’organismo. Ecco,  perché un organismo smette di fabbricare? È una questione di economia, il patrimonio ereditario perde una parte dei suoi compiti, perché c’è già l’alimentazione a compensare. Allora hai una visione abbastanza più dinamica di tutto ciò che naturalisticamente avviene.
La sua tesi fu sui lombrichi?
Sì, e me la diede Colosi. Il motivo è semplice: il lombrico, da allevare, non costa niente, e allora erano tempi molto magri, perché siamo negli anni ’36-’37-’38, gli anni della guerra d’Abissinia, gli anni, cioè, delle sanzioni. Era l’anno della battaglia del grano con la follia mussoliniana di coltivare il grano anche dove non poteva crescere, in montagna, e dare così un reddito minimo; quindi si mangiava un pane veramente impossibile. Insomma, alla Normale mangiavamo molto male. Si diceva che "Normale e mangiar male fanno rima”...
Quindi questi lombrichi costavano poco, bastavano delle bacinelle che avevo io, e in seguito i vasi da fiori, ancora più economici. Sono in realtà animali che hanno un grande interesse e non solo per la sistematica. Darwin li studiò molto e l’ultima sua opera è un classico sulla vita dei lombrichi, dove segnala cose che sono diventate importanti. Per esempio che il lombrico scava e poi tutto il contenuto terroso lo evacua in superficie, così che molte pietre rimangono seppellite, non solo le pietre portate lì dai fiumi in piena o dai ghiacciai, ma anche le pietre monumentali. Li chiamavano "i manovali non pagati”. Scavano di sotto e buttano di sopra.
Sono dappertutto i lombrichi?
Sì, e con attitudini diverse. Ci sono quelli che hanno bisogno dell’umidità per lavorare e quelli attrezzati per le estati lunghe e secche, e che ora si trovano nei guai! Quelli dell’India sono attrezzati per estati calde e secche e stagioni delle piogge, e questo è il motivo per cui molti degli animali dell’Oriente asiatico non riescono ad adattarsi in Europa, mentre si adattano molto bene, per esempio, in altri paesi come l’America centrale. La tesi era sulla circolazione dei lombrichi, perché i lombrichi, lo si sa poco, hanno un apparato circolatorio abbastanza complicato. Sangue rosso, molto ben visibile e pulsazioni ritmiche. Colosi comprò anche degli apparecchi che potessi adoperare… Il professore che comprava degli strumenti per far lavorare lo studente! Sì, il suo è stato un insegnamento molto importante.
Il tema della circolazione ho continuato a studiarlo fino a un decennio fa, perché è un problema che varia da specie a specie, e c’è  la questione dell’evoluzione dell’apparato circolatorio, sul quale ho scritto ancora all’alba del nuovo millennio. Insomma, la mia tesi di laurea non è finita, dovrei fare ancora alcune cose.
Ma come si studia la circolazione sanguigna dei lombrichi?
La mia tesi riguardava soprattutto l’idrodinamica. Osservando il vaso dorsale di questi animali vedevo che questo flusso, ogni volta era più lungo o più corto, più frequente o meno frequente, che poi un poco corrisponde a quello che succede anche negli esseri umani. Anche nella fisiologia umana il problema della frequenza, ma anche della gittata, è molto importante. Questo lo vedevo con i miei occhi, compreso il fatto che se urtavo il tavolino o posavo il cronometro pesantemente sul tavolo il flusso accelerava! Cioè aveva una sensibilità ed è giusto che sia così anche in un lombrico: tutto quello che avviene nell’ambiente influisce sulla frequenza e anche sulla temperatura. Ricordo che avevo messo sotto le gambe del tavolo delle scodelle, con l’ovatta, in modo da limitare al massimo le interferenze, poi cercavo di non toccare minimamente il piano per non trasmettere vibrazioni, e controllavo anche la luce, perché anche se sono animali che stanno sottoterra registrano mutamenti della luce, soprattutto se bruschi.
Insomma, erano troppi gli aspetti che dovevo affrontare simultaneamente, e in più specie, così poi ne scelsi una, la più grande di tutte, forse perché permetteva un’osservazione migliore, ma poi non era tanto conveniente perché era poco trasparente, quindi la gittata si vedeva male. Comunque venne fuori una tesi tutta basata sull’osservazione, direi abbastanza polputa…
Poi lei fu cacciato dalla Normale…
Sì, per indisciplina, nel quarto anno. Ero uno di quegli studenti che non si conformavano, come desideravano, come suol dirsi,  le alte sfere. La Scuola Normale aveva per presidente Giovanni Gentile, che stava a Roma dove aveva tanti altri incarichi, e c’era un vice presidente, Arangio Ruiz, un uomo di mentalità molto ristretta, molto mediocre, del tutto incapace di reggere una scuola di centoventi persone con indirizzi molto diversi e in un momento critico perché c’era la stretta del fascismo, con un controllo molto rigoroso su qualunque cosa. Quando ti andavi a iscrivere, dovevi indicare l’istituzione fascista a cui eri iscritto. Se non eri iscritto a nessuna istituzione, in teoria -perché poi le scappatoie si trovavano- non potevi iscriverti all’università. Io,  data l’età molto tenera in cui sono arrivato all’università, ero avanguardista. Ma l’opposizione al fascismo, molto larvata, che c’era in tutta la città, c’era anche all’università e in particolare nella Scuola Normale. Ci furono anche due momenti abbastanza critici. Il più importante fu la morte di Costanzo Ciano, che era livornese e che era uno dei grandi del fascismo, quello che nella Romagna aveva fatto la lotta contro tutte le istituzioni di tipo socialista e poi era caduto in disgrazia, ma neanche tanto. "È morto Costanzo Ciano, ragazzi andate tutti ai funerali!”. Da Pisa s’andava in bicicletta a Livorno, non c’erano autobus, si poteva prendere il treno, ma solo chi era pigro lo prendeva, quindi al funerale andarono tantissimi studenti. Ed era allora in voga una canzoncina, "Maramao perché sei morto, pane e vin non ti mancavano, l’insalata era nell’orto, Maramao perché sei morto”. Piano piano, cominciai, "Maramao…”, sottovoce, poi sempre più forte, e divenne un coro. Ci fu un’inchiesta. E sapevano chi era andato! Anche se l’invito era generico, anche se tu eri andato in bicicletta e non avevi comprato nessun biglietto ferroviario. Lì mi accorsi come fosse capillare la sorveglianza.
L’altro episodio fu quando venne in visita il sottosegretario alla pubblica istruzione, che si chiamava, nomen omen, Mezzasoma. Mezzasoma è un cognome meridionale, la soma è una unità di superficie terriera, il contadino povero, molto povero, aveva mezza soma, il cognome deriva di lì. Insomma, nel suo caso il nome si prestava a diventare Mezzosomaro. E anche lì la direttiva: "Ragazzi, fate onore, arriva Mezzasoma, bisogna che lui abbia un’impressione entusiastica, perché l’università dipende da quello che ci dà il Ministero…”. Allora sotto la sorveglianza dei Guf dovevamo festeggiarlo. Mezzasoma fu portato trionfalmente da quattro persone che fecero il seggiolino, mentre da dietro, però, qualcuno lo punzecchiava e, piano piano, il cognome "Mezzosomaro” cominciò a sentirsi.
Mi fa rabbia quando vedo alla televisione i giornali Luce, dove si vedono queste manifestazioni che sembrano così seguite, quell’entusiasmo! Nessuno dice quello che c’era dietro, che noi eravamo comandati, che ti dovevi alzare alle sei di mattina, venivi portato sul posto, ed era già previsto dove tu dovevi stare, la sorveglianza che avresti avuto, fino al battimani e allo sbraitare: "Duce! Duce!”! Anche quello era comandato. Di gente che spontaneamente andava a quelle adunate fiume ce ne sarà stata un venti per cento. Non di più.
Quindi una volta espulso dalla Normale, la tesi non l’aveva ancora finita?
La tesi l’avevo praticamente finita, non solo, ma avevo finito anche il pre-militare,  perché ogni sabato si andava a fare esercitazione, e per ore, alla periferia in piazza d’armi. E unò, duè, unò, duè, per fila sinistr, per fila destr, e ho imparato tanto, mi è servito per quando sono diventato ufficiale dell’esercito. Mi mancavano solo due esami:  cultura militare e fisica. Poi presentai la tesi. Mi sono laureato o il giorno prima o il giorno dopo della dichiarazione di guerra, il 10 giugno. Presi 110 e lode. E fui il primo del mio anno alla scuola Normale che non era più la mia scuola.
Poi è partito subito?
Come no! Giovane ufficiale nell’artiglieria ippotrainata. Quando oramai tutti gli altri eserciti avevano i cannoni semoventi noi avevamo la ippotrainata, che poi in Libia, mi chiedevo, come li alimenti e come li abbeveri i cavalli? Poi, però, feci il passaggio alla contraerea e mi imbarcai per la Libia il 27 dicembre del ’40, sul Conte Rosso che, dopo il favoloso Rex, era un transatlantico da diecimila tonnellate, fra i più grandi e belli, trasformato in trasporto di truppe.
Partimmo con destinazione Bengasi. Tenete presente che Bengasi era caduta da almeno dieci giorni in mano agli inglesi che erano ormai alle porte di Tripoli. Ricordo che quando stavamo per imbarcarci ci fecero togliere gli elmetti d’acciaio per darci dei caschi di sughero un po’ ridicoli e molto fragili. Perché? Perché quando spari con la contraerea in verticale, i pezzi dei tuoi stessi proiettili dopo l’esplosione potevano ricascarti sulla testa… Quindi, durante i bombardamenti la cosa più da temere non erano le bombe inglesi, ma i residui della tua contraerea!
Ha detto che nei momenti di noia, in particolare in prigionia, lei si metteva a osservare…
Sì, fare osservazioni naturalistiche o riparare autocarri erano i nostri passatempi.
Mi appassionai anche alla vita dei pidocchi. A Derna c’era stata una grave epidemia di tifo petecchiale, portata dai pidocchi, che del resto tutti avevamo addosso. Il rimedio era il mare: si lavava tutto, biancheria, giacca, cappotto, coperte. Poi si metteva tutto ad asciugare al sole e finalmente eravamo liberi da quelle bestie. Mare e sole erano il rimedio. Tu stesso dovevi stare in mare molto a lungo! Quello dei pidocchi è un problema zoologico abbastanza interessante perché i pidocchi dell’uomo in acqua marina prima o poi affogano, basta avere pazienza, mentre i pidocchi delle foche resistono benissimo all’ambiente acquatico, perché si vanno a nascondere dentro le narici e di lì succhiano il sangue che gli serve per alimentarsi. In altri animali marini, i pidocchi si creano una piccola bolla di aria intorno ogni volta che l’animale si tuffa, una piccola provvista di aria che permette loro di sopravvivere a periodi di immersione anche di un’ora. Mi ricordo che mi chiedevo: ma per i pinguini che sono sempre pieni di pidocchi come tutti gli uccelli, cosa succede? Non sono riuscito mai a trovare una risposta. Ho anche scritto a quelli che andavano in Antartide, perché c’è stato un periodo in cui molti dei naturalisti italiani erano là: "Mi sapete informare come sopravvivono i pidocchi dei pinguini?”. Ma non si possono proprio toccare, sono super protetti, i pinguini dell’Antartide.
Ha continuato a lavorare sui lombrichi anche dopo la guerra?
Sì, ho fatto molte ricerche sui lombrichi. Sapevo bene come allevarli e tutt’ora sono uno dei pochi che è in grado di farlo per molte specie diverse. Ora, il lombrico non depone l’uovo liberandolo nell’ambiente come, per esempio, fanno le chiocciole, ma prepara una specie di bozzolo in cui lascia le uova. Da questi bozzoli, che riuscivo a vedere in trasparenza con il microscopio, uscivano qualche volta dei gemelli. Ne approfittai per studiare al microscopio le differenze presenti nei gemelli uniovulari, geneticamente assolutamente identici, e quindi l’influsso delle condizioni ambientali a parità di patrimonio ereditario, che è il motivo per cui anche nell’uomo i gemelli uniovulari vengono studiati attentamente.
Questa fu una delle mie prime ricerche. La presentai a un convegno della società genetica italiana, ma per loro lo studio sui gemelli uniovulari non era genetica. Luigi Gedda, un eminente personaggio del Vaticano, fondatore e direttore di una rivista di gemellologia, me l’aveva pubblicato e nel convegno il mio saggio fu criticato molto vivacemente da un tale Gini, uno statistico. La statistica era entrata nella genetica con effetti, per certi versi, nefasti. In genere il lavoro del naturalista e anche del biologo e pure del medico è un lavoro empirico, per la prima volta, invece, la matematica permetteva di risolvere problemi di natura biologica con equazioni, per la maggior parte di primo grado, il che aveva fatto sì che più d’uno si montasse la testa. A tutt’oggi nessuno ha contestato il mio studio sui gemelli.
La storia di Gedda è curiosa: monsignore, funzionario del Vaticano, fondatore dei comitati civici, voleva che collaborassi con lui sulla gemellologia per lo studio della quale riusciva a raccogliere molti soldi, pare anche perché don Sturzo aveva una sorella gemella, anche se non uniovulare, e il tutto veniva finanziato come studio dei gemelli poveri. Gedda aveva ambizioni di vincere la cattedra di genetica e ci riuscì pure, malgrado che i genetisti, appunto, aborrissero la gemellologia.
Ho lavorato molto anche sull’embriologia,  che non è tanto facile coi lombrichi proprio perché depongono le uova dentro queste capsule che tu devi riuscire ad aprire senza guastare l’embrione, che poi va travasato, creando l’ambiente ideale perché si sviluppi ulteriormente. Feci una ricerca in particolare sui mostri doppi, che si hanno quando da un uovo nascono due individui, che, per qualche malfunzionamento, rimangono attaccati. Per fortuna avevo trovato un ceppo in cui questo fenomeno si ripeteva costantemente; o per le modalità di allevamento che adoperavo o perché avevo un ceppo particolarmente disgraziato,  il numero di anomalie era molto frequente.
Mentre preparavo il lavoro mi capitò sott’occhio la ricerca di un russo che aveva insegnato qualche tempo a Messina, in cui c’era descritta buona parte dello sviluppo embrionale del lombrico. Bene, finisco il mio lavoro, citando anche la ricerca del russo, e lo mando a Cotronei. Quando vado a trovarlo per sapere cosa ne pensasse, mi dice che ho fatto uno sbaglio: "Lei non mi ha citato! Lei scrive che il lavoro di quel russo è stato dimenticato da tutti per ottant’anni mentre io ho messo una nota nelle mie dispense di Roma. Questa è una colpa grave”. Solo che io avevo studiato a Napoli, poi a Siena, e le dispense di Cotronei, pure molto mediocri, non le avevo mai guardate. Un’altra ricerca è stata quella sui cromosomi dei lombrichi del ceppo di cui mi stavo occupando. Analizzando la diembrionia (che è triploide e i triploidi non possono riprodursi sessualmente ma solo per partenogenesi)  riuscii a stabilire come avviene la partenogenesi di questi lombrichi, che non è descritta da nessuna parte. Non solo: dimostrai anche che la poliploidia, che è considerata molto rara nel regno animale ma molto frequente invece in quello vegetale, presso i lombrichi è frequente come nel mondo vegetale.
Quando finii questo lavoro andai da Padoa: "Guarda cosa sono riuscito a mettere insieme, una monografia di cento pagine...”. Mi disse: "Un po’ più di prudenza, continua ancora un pochino!”. E però dieci giorni dopo mi chiamò per dirmi che su "Nature”, la più importante rivista naturalistica del mondo, una botanica descriveva la partenogenesi nel mondo vegetale e nei lombrichi... Non lo dissi, ma lo pensai: "Mi hai fatto perdere il primato!”. Comunque è stata una monografia molto bella lo stesso. Bauer, il direttore di "Cromosoma”, la prestigiosa rivista tedesca, mi chiese di collaborare alla rivista. Era stato un grande lavoro, anche massacrante, ore e ore al microscopio! E allora di microscopi binoculari ce n’erano ben pochi. Ma in Italia nessuno l’ha mai citato, silenzio assoluto. Però qualcheduno lo deve aver letto, perché mi servì per fare il primo concorso a cattedra.
Lei è stato uno dei primi divulgatori di Darwin in Italia. Ha incontrato grandi difficoltà…
Questa è un’altra di quelle cose che mi sono rimaste qui... Io pubblicai due lavori su una rivista, "Società”, che ora è scomparsa da un pezzo, e uno sulla visione genetica, non evoluzionistica, di Darwin, e poi un secondo lavoro sui 150 anni di evoluzionismo, che era una novità assoluta per l’Italia, in cui si valorizzavano anche i predecessori di Darwin. Questi furono i primi contributi che diedi ed entrambi fecero molto rumore. Poi mi occupai un po’ di evoluzione dell’uomo. E lì fui guardato malissimo da una parte dei democristiani, sempre potentissimi. Dovete sapere che dopo la guerra le cattedre venivano spartite in questo modo qui, lo dico brutalmente: metà ai democristiani, o quelli che si dichiaravano tali perché gli faceva comodo, e metà per tutti gli altri che di solito erano della sinistra, né liberali né repubblicani, purtroppo. Naturalmente con metà dei democristiani in cattedra, parlare di evoluzionismo significava entrare in baruffa, e una molto violenta avvenne tra me e Sermonti.
Dei Sermonti ce n’è due: uno buono e uno cattivo. Quello buono è il letterato che commenta Dante, l’altro invece è quello anti darwinista, che è schierato con i più retrivi autori nordamericani.
I creazionisti...
Fra l’altro, in un mio articolo raccontai del processo "della scimmia” che si svolse in America negli anni ’24-’25, gli anni più bui della cultura americana, dove vennero processati i rei di aver insegnato l’evoluzionismo invece del creazionismo basato sulla Bibbia. La disputa con Sermonti diventò abbastanza violenta dopo una mia pubblicazione su "Le scienze”, che allora era poi l’americana "Scientific American”, in cui contestavo punto per punto le sue affermazioni, alcune delle quali mostruosamente sbagliate: per esempio, che in tre generazioni si potesse modificare completamente il patrimonio genetico quando trecento non bastano. Allora Sermonti si arrabbiò e con lui un suo allievo senese, un tirapiedi, con cui, quasi quasi, venivo alle mani in un’altra occasione, a Siena, dove ero stato invitato a parlare di Vespucci. Questo si alzò per fare uno sproloquio sul fatto che i senesi dovevano essere onorati di aver avuto come rettore Chiurco. Chiurco, che fu anche podestà di Siena, era un personaggio che dire schifoso è dire molto poco. Consegnava gli studenti renitenti alla leva ai tedeschi perché li fucilassero dopo averli portati alla casermetta, dove c’è la lapide, per torturarli; nell’ospedale si ricordano che dovevano curare i partigiani di nascosto perché se lo veniva a sapere Chiurco, che tra l’altro era chirurgo e professore di chirurgia dell’Università di Siena, li avrebbe denunciati. Fu condannato a morte per i suoi delitti.
Questo lo dico per far capire con chi mi sono dovuto scontrare sull’evoluzionismo.
All’inizio diceva che l’evoluzionismo alcuni problemi non li risolve…
Sì. Uno riguarda i due sessi. Quando devono evolvere indipendentemente due caratteri congruenti, da una parte evolve l’asola, dall’altra il bottone, ma devono evolvere in modo che alla fine il bottone possa agganciarsi all’asola. La probabilità di quello schema elementare, mutazione-selezione, diventa molto meno pregevole. Ma soprattutto, cosa succede quando le domande dell’ambiente a una popolazione sono contraddittorie? Non solo devi selezionare, ma devi avere risultati che siano buoni per due cose che non sono tra di loro compatibili.
Per esempio?
Per esempio, quando un animale deve essere veloce, ma nello stesso tempo pesante. Ci sono molte cose di questo stesso genere che riguardano la struttura dell’emoglobina e una di queste riguarda un problema fondamentale: durante la gestazione il feto deve sottrarre alla madre l’ossigeno legato all’emoglobina materna. Quindi l’evoluzione del feto dovrà renderlo indipendente, cioè con una propria dotazione di emoglobina, diversa da quella della madre. Certi problemi vengono risolti soltanto se l’evoluzione produce qualcosa di nuovo. Nel caso della locomozione,  che dicevo prima, si cercherà una diversa disposizione dei muscoli o l’intervento di altri muscoli durante la corsa dell’animale più pesante.
Ma di problemi di questo genere, quando uno comincia a guardare la fisiologia, ne vengono fuori tanti, e quando studi l’evoluzione ti rendi conto che ogni volta è stato inventato un materiale genetico nuovo per risolvere un problema, come dicevamo, di incompatibilità fra genitori e figli o tra un sesso e l’altro. Ma l’evoluzione riguarda non solo l’evoluzione biochimica, o meccanica, delle articolazioni, cose che tu vedi macroscopicamente, ma anche i programmi genetici dell’embriologia di cui è più difficile rendersi conto. Perché nell’embriologia certe proteine non possono essere sintetizzate prima di altre, ma soltanto dopo. Tanto per rimanere nel nostro esempio: l’emoglobina ha un effetto se prodotta immediatamente dopo il parto, per subentrare appena l’emoglobina preesistente piano piano si consuma. Infatti c’è una patologia quando l’individuo continua a vivere con l’emoglobina fetale, che non è una cosa comoda.
Insomma, bisogna prendere in considerazione anche quelli che sono i cosiddetti programmi. A tanta gente questo sembra ultramaterialismo, ma non è ultramaterialismo, se vogliamo è un materialismo più consapevole, più rispettoso della logica, quello che ci obbliga a studiare i programmi genetici e la loro evoluzione. Certi programmi li ritrovi identici dai protozoi in poi. Sembra quasi incredibile. Certe potenzialità biologiche compaiono quando dai batteri si passa ai protozoi, e questa è una delle cose che riguarda anche l’evoluzione della cellula. La cellula del protozoo è molto diversa dalla cellula batterica: cos’è cambiato? Quali innovazioni ci sono? Di certo ci sono innovazioni quantitative del Dna enormi.
Insomma, il criterio è che l’organismo deve funzionare sempre. La complessità che raggiunge è in rapporto con la quantità e la varietà di Dna che possiede. Con poca informazione non fai una cosa molto complicata, un organismo umano è molto più complicato rispetto a quello dei suoi predecessori e ha delle potenzialità nuove, programmi nuovi. Il Dna umano è mille volte quello di un batterio. Sembra piccola la differenza, però in realtà si parla di informazioni e l’informazione molto spesso funziona così: hai bisogno della tale cosa? Non dici: "Fattela”, ma "Procuratela in quel modo”, che è molto più semplice. L’informazione è etologica. L’informazione comportamentale, quando si passa dal batterio in su, acquista moltissima importanza. È il modo in cui viene trasmessa che è totalmente buio. Darwin, su questo, s’è molto interrogato. Lui era un grande naturalista, un grande osservatore, e continuamente ragionava sul comportamento degli animali, non soltanto sulla struttura, e le risposte che dà sono vere, però provvisorie. Per esempio, osservò che ­l’iguana marino delle isole Galapagos -c’è anche il tipo terrestre-, stranamente, se impaurito dall’uomo non si rifugia in acqua, continua a opporsi, a emergere, perché per loro tradizionalmente -spiega Darwin- il nemico è acquatico, è il pescecane. Quindi l’ambiente di terra è l’ambiente di fuga. Però nelle isole Galapagos arriva l’uomo, che rovescia i rapporti... Vi ho riempito con un sacco di chiacchiere...
(a cura di Luca Baranelli,
Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti. 
Per le foto ringraziamo la famiglia Omodeo)