Oggi fai la "facilitatrice” in alcuni gruppi di auto aiuto per persone senza lavoro, dopo essere passata anche tu per la stessa esperienza. Puoi raccontare?
Paola. Ho avuto una vita lavorativa stabile, fin troppo, fino al 2010; laureata in lingue, nel 1986 avevo cominciato a lavorare in un’azienda che allora si chiamava Honeywell Bull, ditta di computer poi diventata multinazionale francese, nel sito di ricerca e sviluppo di Pregnana Milanese. Ho cominciato facendo traduzioni e localizzazioni di software dall’inglese all’italiano, poi sono passata a scrivere documentazione tecnica, fino a diventare responsabile di questo gruppo fino al 2003. Rimasta a casa per un anno in maternità, quando sono rientrata ho cambiato funzioni, ho fatto un po’ di marketing, attività commerciale e supporto tecnico alla vendita. È stata una vita lavorativa bella, in cui ho investito molto, ci tenevo al mio lavoro, fino a che, nel 2006, la casa madre ha deciso di vendere la filiale italiana alla famiglia Landi, proprietaria e fondatrice di Eutelia, che qualche mese prima aveva acquisito anche la Getronics Italia. Da lì è cambiato tutto: banalmente siamo passati da una multinazionale a un’azienda padronale; ci siamo subito resi conto che non erano interessati a questo business. All’inizio non abbiamo reagito, anche perché c’era veramente un clima di terrore, provvedimenti disciplinari, lettere di richiamo, rappresentanti sindacali licenziati...
Nel loro piano dichiarato, questa nuova azienda, complessivamente duemila persone, doveva diventare il più grande polo di informatica e telecomunicazioni, salvo poi decidere, nel 2009, che l’IT non era più di loro interesse. Così c’è stata questa cessione di ramo d’azienda e il passaggio a una "bad company”. Da quel momento non ci hanno più pagato lo stipendio. Esasperati, a fine 2009 abbiamo occupato tutte le sedi aziendali. È partita Roma, dopo due giorni si sono aggiunte Pregnana, Ivrea, Torino... noi puntavamo a mandarli via e ad arrivare all’amministrazione straordinaria, anche se ci rendevamo conto che la situazione era molto, molto grigia. È stato anche un momento molto intenso, perché dopo anni di vessazioni e silenzio, finalmente stavamo facendo qualcosa e poi era un po’ come tornare ragazzi: l’occupazione, stare dentro l’azienda, mangiare e dormire insieme, far manifestazioni in giro; insomma, dal punto di vista delle relazioni fra di noi è stato un periodo importante, anche positivo.
Poi però sono arrivati i commissari, i quali hanno guardato i conti e hanno detto: qui non ce n’è per nessuno. Per cui è iniziata la cassa integrazione per quasi tutti noi. Ora, finché siamo stati tutti assieme a lottare, in qualche modo abbiamo retto, nel momento in cui ciascuno si è trovato da solo a casa propria a fare i conti con il fatto che non saremmo più tornati indietro, che il lavoro non c’era più, varie persone hanno cominciato a crollare. La gente stava male; qualcuno non usciva più di casa, alcuni colleghi per un periodo non hanno detto niente a casa continuando a uscire la mattina e a rientrare la sera come niente fosse, c’è chi ha fatto pensieri molto brutti.
Io personalmente ero arrabbiata nera, ma non sapevo bene come sfogarla, questa rabbia. Mio marito e mio figlio un po’ hanno pagato il conto di questa cosa. Personalmente non avevo mai preso in considerazione il fatto di poter non lavorare, era fuori del mio orizzonte, per cui dopo un mese stavo veramente "sclerando”. Io abito a Castellanza, in provincia di Varese, dove c’è una comunità terapeutica per persone con problemi di dipendenza. Sono andata lì e ho detto: "Fatemi far qualcosa”. E mi sono messa a fare volontariato.
Dall’altra parte, nella nostra azienda noi avevamo un’organizzazione sindacale molto attiva che faceva di tutto per tenere insieme le persone e così si è resa conto del malessere diffuso fra di noi. Un giorno ...[continua]
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