Giuseppe Stoppiglia, prete-operaio, formatore sindacale, fondatore dell’Associazione Macondo per le relazioni con l’America Latina, vive oggi a Pove del Grappa con Gaetano Farinelli, anche lui prete-operaio, che condivide da sempre il suo impegno.

Cominciamo dall’inizio, dalla tua infanzia…
Io sono figlio della mia terra. Sono cresciuto in Valsugana: mio padre era un contrabbandiere. Mi ricordo che da bambino, ­­a quattro anni, la nonna mi diceva: "Giuseppe, quello che vedi in casa non devi dirlo ­neanche al prete e alla maestra”. Il prete e la maestra erano i riferimenti principali del paese. Eravamo in periodo fascista. I contrabbandieri venivano a caricare quello che noi avevamo portato dalla Valsugana, dove si coltivava il tabacco. Credo che la mia anarchia abbia origine da qui; un certo tipo di anarchia, perché c’è bisogno che la legge sia al servizio dell’umanità, non contro. Eravamo poveri e solo facendo contrabbando si poteva mangiare il pane bianco. In Valsugana c’era grande povertà e c’era troppa gente. Tanti sono emigrati stabilmente in Francia, in Belgio, in Svizzera, molti anche gli stagionali. Come è accaduto ai miei conterranei, fin da subito io sono stato ricondotto ai problemi sociali. Quando sono tornato in Veneto e lavoravo alla Cisl regionale come formatore, ho notato che tra Pove e Cismon c’erano 25 sindacalisti a tempo pieno di Cgil, Cisl e Uil. Per fare un confronto, a Bassano, 40.000 abitanti, ­neanche uno. Solo a Pove ce n’erano tre, due a Solagna, due a Campolongo, poi a Cismon quattro, a Valstagna tre, per dire quanta gente aveva sensibilità sociale.
Il Veneto in cui sono cresciuto era molto clericale. A suo tempo, l’impero degli Asburgo e la chiesa cattolica si erano alleati per consolidare la controriforma, prima attraverso la scuola, poi con gli asili, dagli asili agli ospedali, dagli ospedali alle case di riposo. Dappertutto in Veneto la chiesa ti conduceva dalla nascita fino alla morte. Il più grande edificio, assieme alla canonica e alla chiesa, in queste zone era la scuola, che ha sempre avuto una centralità anche architettonica. La chiesa poi era spesso sul punto più alto, perché doveva dominare: è il caso di Schio, ad esempio, dove il duomo sovrasta dall’alto il centro cittadino. Così la società veneta divenne clericale. Il controllo della chiesa era imperniato sulla parrocchia, dove c’era un prete che gestiva il consenso, che dava gli indirizzi sociali e politici. Il popolo veneto, con il suo carattere mite, contro tutti gli integralismi, è diventato capace di fare ironia solo nelle barzellette: proprio per questo le barzellette più dure contro il clero le trovavi in Veneto, perché non sapevano come difendersi. I veneti in fondo hanno buon senso, sono un popolo legato alla terra, una terra molto bella che ha dato grandi artisti durante la Serenissima. Poi abbiamo smesso di dare artisti, proprio per questo clericalismo, che poi diverrà clerico-fascismo.
Nel Veneto c’era un clero molto legato al popolo, alla gente, e poi un clero del potere, della devozione. Questa frattura nacque nella mia diocesi, Padova, dalla distanza tra la città, la curia e la valle, l’altopiano: lì il controllo del vescovo era saltuario, il parroco aveva tanta autonomia e i preti erano molto coinvolti nella vita della gente. Le prime cooperative bianche sono nate dai preti, le prime casse peota [proto-casse di risparmio] sono state fatte dai preti perché vivevano in mezzo alla povertà. Ogni paese aveva il suo asilo, ogni cittadina, anche piccola, aveva il suo ospedale. Marostica, Bassano, Cittadella, avevano tutti gli ospedali, e poi avevano tutti le case di riposo. In un certo senso, la chiesa era anche lo stato: il sindaco era sempre scelto tra chi era accettato dalla chiesa. Questo era il Veneto dove sono cresciuto.
Ma io vivevo in un ambiente di contrabbandieri, di laicità vissuta. Mio padre era un uomo di fede, ma non era un uomo di devozione. Rispettava l’autorità del prete e prima di uscire con le macchine agricole chiamava sempre il parroco a benedirle. Però non era mai stato clericale. Il mio babbo non voleva neanche che io mi facessi prete: "Parché veto fare il prete?”. Anche il mio parroco mi diceva: "Ah, Bepi, Bepin, sta tento, non dar retta sempre ai preti”. Perché il cappellano era troppo devoto e mi faceva dire troppi rosari. "Sta tento, Bepin, varda che i preti non i xe sempre veri, no i xe sempre sinceri. I dise busie”. Il mio babbo e il m ...[continua]

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