L’intervista che pubblichiamo riguarda la prima parte della vita di Chiaromonte. La seconda parte dell’intervista comparirà in uno dei prossimi numeri.
Nicola Chiaromonte resta uno sconosciuto ai più. Tu come ti sei imbattuto in lui?
Sì, l’abbiamo sempre detto, lo dicono i pochi che lo conoscono: è quasi uno scandalo che Nicola Chiaromonte sia così poco conosciuto, perfino nel mondo della cultura. Se qualcuno è uno specialista in questo genere di studi finisce per incontrarlo, ma una persona di cultura media, anche nel corso degli studi universitari, non lo incontra. È vero che le carte sono tutte lontano, però ciò non può giustificare un tale misconoscimento.
Io pure non sapevo assolutamente chi fosse durante gli studi universitari.
Mi sono imbattuto in lui facendo la tesi di laurea, che ho dedicato all’interpretazione del fascismo elaborata da Giustizia e Libertà. Pensavo però di lavorare in particolare su Carlo Rosselli, poi, ovviamente, leggendo tutti gli opuscoli, i quaderni, in parte anche il settimanale di GL, ho incontrato questo autore che scriveva le cose più moderne e più lucide, a mio avviso, rispetto al suo tempo e rispetto al fascismo, in particolare sui totalitarismi, e me ne sono innamorato. Alla biografia di Chiaromonte ho dedicato la tesi di dottorato successiva. Al di là del libro di Gino Bianco questa effettivamente era una lacuna nel panorama storiografico italiano. Una lacuna che riguardava non solo Chiaromonte ma anche Caffi, Renzo Giua e Mario Levi, che con Chiaromonte formavano il gruppo dei cosiddetti "novatori”. Levi era economista, e le cose che scriveva dell’economia in epoca fascista per GL e per il "Nuovo Avanti” di Tasca, sono cose anche molto interessanti. Giua purtroppo non ha avuto il tempo di esprimersi andando a combattere e a morire in Spagna da giovanissimo. Quindi le due figure più importanti dal punto di vista teorico, e senza sminuire gli altri due, sono Caffi e Chiaromonte. Il primo articolo di Chiaromonte che ho letto riguardava il fascismo e mi colpì in maniera straordinaria, tanto da entusiasmarmi. L’articolo sintetizzava un po’ tutte le riflessioni fatte sul fascismo in quel periodo e colpiva la straordinaria modernità, anche nell’uso lessicale dei termini con i quali descriveva il regime e la vita degli italiani della sua generazione sotto l’oppressione del regime. Ricordo che lo stesso Bruno Buongiovanni, con cui facevo la tesi, che Chiaromonte lo conosceva, ammise di aver dimenticato la vivacità e lo spessore della sua analisi del fascismo. Forse proprio questa modernità è uno dei motivi per cui gli scritti e la figura di Chiaromonte sono stati del tutto ignorati: perché i termini e i concetti che esprimeva erano completamente diversi da quelli che poi saranno in uso dopo la Seconda guerra mondiale.
La categoria di totalitarismo in Italia non verrà utilizzata perché considerata come qualcosa che appartiene all’armamentario ideologico della Guerra fredda, di parte liberaldemocratica, e nella storiografia italiana, dove pure c’era una presenza liberale, la componente maggioritaria marxista ostacolò l’uso del termine totalitarismo come chiave interpretativa del fascismo. L’idea al centro della mia tesi era che l’analisi del fascismo, e più in generale del Novecento, di Caffi e Chiaromonte aveva avuto una straordinaria influenza su Giustizia e Libertà e sullo stesso Carlo Rosselli, malgrado ciò che Rosselli andava scrivendo in quegli anni, sul fascismo, fosse ovviamente condizionato dal suo impegno politico.
A mio avviso c’è un Rosselli prima di conoscere quella riflessione, prima, cioè, del 1933-’34, e c’è un Rosselli dopo. L’ultimo Rosselli, ovviamente molto impressionato, come tutti del resto, dall’avvento del nazismo in Germania, definisce il fascismo come un regime di fatto totalitario, rifacendosi moltissimo alle cose che erano state scritte e dette da Caffi e Chiaromonte.
Ma arriva il dissidio…
Sì, un dissidio che proprio per questo è vissuto da entrambi, anche a livello personale, come un fatto estremamente ...[continua]
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