La morte in Svizzera di Fabiano Antoniani, dj Fabo, e più recentemente l’addormentamento di Dino Bettamin, malato di Sla, hanno riportato in primo piano le questioni di fine vita. Vorremo ci aiutasse a fare un po’ di chiarezza...
C’è sicuramente grande bisogno di chiarezza, perché sono vicende recenti, ma sono profondamente diverse l’una dall’altra. Fabiano Antoniani, dj Fabo, è un paziente che ha chiesto il suicidio assistito in quanto non riteneva dignitose le sue condizioni di vita. Teniamo presente che le cure palliative accompagnano il malato nella fase finale di vita per alleviargli le sofferenze, però non sono un percorso che accelera la morte. Ci sono persone che quindi non le ritengono idonee con il proprio progetto, che è quello di chiudere la vita in anticipo rispetto al percorso della malattia. A queste persone, che statisticamente si aggirano intorno al 2-4% della popolazione, anche il miglior servizio di cure palliative nazionale non offre una risposta.
Allora, sicuramente un buon servizio di cure palliative riduce moltissimo le domande di eutanasia o di suicidio medicalmente assistito*, originate dalla paura di soffrire, ma se la richiesta di por fine alla vita è motivata dal fatto che non si vuol fare quel pezzo di strada finale, questi ammalati non hanno un’altra via da percorrere.
Quindi ci vuole sicuramente un ottimo servizio di cure palliative possibilmente esteso a livello nazionale, certi che questo controllerà tante richieste e lenirà le sofferenze della stragrande maggioranza dei malati, e tuttavia dobbiamo essere consapevoli che ci sarà sempre una minoranza che chiede l’abbreviazione della vita, che chiede di non fare quell’ultimo pezzo di percorso.
In Belgio c’era una grande carenza di cure palliative e quando, sulla scorta dell’Olanda, è stata introdotta l’eutanasia, lo stato ha fatto contemporaneamente un grossissimo investimento in cure palliative. L’esito è stato di far rientrare la gran parte delle domande. Ma una quota è rimasta.
Anche l’esperienza svizzera, che non è l’eutanasia ma il suicidio medicalmente assistito, lo dimostra chiaramente. La motivazione qui non è la sofferenza. Sono persone che dicono: fin qui la mia malattia l’ho vissuta, l’ho sopportata, ci ho trovato un senso, da qui in poi non voglio andare, anche se mi proteggete dal dolore. È una scelta che ha più a che fare con un modo di pensare, con una visione del mondo.
A volte l’eutanasia viene chiamata in causa come risposta alla sofferenza, in realtà non è così. La risposta alla sofferenza sono le cure palliative. L’eutanasia è una risposta a quella porzione di vita, a quella fase finale che non è dentro il mio progetto.
Dino Bettamin invece rappresenta un ottimo caso di assistenza di cure palliative in cui il malato, fino a che è stato possibile, ha fatto il suo percorso di malattia, protetto dai sintomi, supportato dall’equipe e dai familiari. Poi, però, quando i sintomi della fase finale della malattia non erano più controllabili dalle terapie tradizionali, nel momento in cui sono diventati refrattari, cioè non più trattabili, non è rimasta altra strada che quella di addormentare il malato in modo commisurato all’intensità della sofferenza. Perché a quel punto puoi controllare solo la percezione della sofferenza, non più il sintomo. Quindi il signor Bettamin è stato addormentato.
Ma che cos’è, specificamente, la sedazione profonda?
È la somministrazione di farmaci sedativi. Il farmaco sedativo addormenta le persone e quindi viene meno la percezione della sofferenza. Sono farmaci che vengono somministrati in modo graduale, in base all’intensità della sofferenza. Ci sono sedazioni che durano un’ora, e sedazioni che durano 15 giorni, perché il processo di morte non è programmabile, avviene nei tempi suoi. Noi aggiustiamo i farmaci in base all’incremento della sofferenza per trovare quel livello in cui il sintomo c’è ancora, la fatica a respirare c’è, ma non viene più avvertita come angosciante, fastidiosa. Fino a che il malato decede.
La sedazione profonda accelera il ...[continua]
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