Il Covid è una malattia che porta con sé un’intensa sofferenza fisica eppure in questi mesi si è parlato poco o nulla di cure palliative. Può raccontarci come sono andate le cose?
La pandemia ha avuto un forte impatto sulle cure palliative che comunque, pur nel silenzio -almeno laddove esistevano reti e strutture- non si sono mai fermate.
Parliamo di un lavoro che è rimasto invisibile perché svolto in seconda linea, nelle retrovie, mentre comprensibilmente l’attenzione mediatica era concentrata sul problema di reperire posti letto aggiuntivi, creare nuovi reparti, potenziare terapie intensive eccetera.
Nonostante l’attivazione delle cure palliative sia rimasta un po’ sottotraccia, nei fatti però, in Lombardia, nel Nord dell’Emilia e in Piemonte, cioè nelle aree più colpite, l’impegno è stato notevole. Nella fase emergenziale le équipe specialistiche di cure palliative sono state impegnate soprattutto a fornire consulenze ai sanitari, in particolare quelli chiamati a operare nei neo reparti Covid, dove il personale medico e infermieristico non era assolutamente abituato a gestire ammalati così gravi e che morivano in quel modo e con quella frequenza. I palliativisti hanno supportato le unità ospedaliere impegnate nel contrasto alla pandemia attraverso una collaborazione al triage, dei briefing quotidiani, la formazione sul campo, ecc. Un ruolo importante è stato svolto anche nella gestione diretta di malati, sia negli hospice dedicati al Covid che nei reparti Covid dedicati al fine vita; lì i palliativisti hanno gestito direttamente o hanno sovrainteso la gestione dei malati che non erano candidati alla intensiva e che quindi venivano avviati verso un accompagnamento di controllo della sofferenza.
Siamo intervenuti anche nella gestione delle comunicazioni: tenere i rapporti con le famiglie compensando le inevitabili limitazioni legate al contenimento pandemico rimane un’impresa impegnativa.
Fondamentale è stato poi l’apporto degli psicologi palliativisti che hanno aiutato il personale di vari reparti. Penso in particolare alle terapie intensive, che sono state impattate molto pesantemente e che di solito non hanno, al loro interno, la figura dello psicologo strutturato. Il tutto ovviamente in condizioni molto diverse dall’ordinario perché non c’erano né i tempi né i modi per le riunioni e i debriefing classici.
Comunque, pur con tutti i limiti posti dalla situazione, grazie a interventi limitati nel tempo, mirati ad ascoltare i disagi e a dare indicazioni su come gestire le proprie emozioni, un aiuto è stato portato.
L’altro filone su cui abbiamo lavorato come palliativisti è stato quello del consenso informato e della pianificazione delle cure. Ovviamente in una situazione così drammatica non era possibile procedere come si fa di solito. Pur nell’eccezionalità di quei numeri e di quei tempi, abbiamo cercato di far presente al malato le sue condizioni, offrendogli la possibilità di scegliere quali trattamenti accettare o rifiutare, o comunque, nel caso di pazienti in coma, in insufficienza respiratoria o che non potevano più rispondere, di tener conto delle volontà espresse nei giorni precedenti.
Certo non sono stati i tempi di un normale esercizio del consenso informato e della pianificazione. Però laddove c’erano gli spazi, le possibilità, quello è stato un ruolo che i palliativisti hanno svolto.
Dopo l’estate la situazione è parzialmente cambiata: le istituzioni si sono accorte di noi e hanno cominciato a recepire i documenti che avevamo scritto a marzo, aprile e poi nei mesi successivi. Anche perché nel frattempo stava emergendo una letteratura internazionale da cui risultava che quello che avevamo fatto in Lombardia piuttosto che in Piemonte o Emilia Romagna, era stato fatto contemporaneamente in altre parti del mondo da altri palliativisti. Questo ha fatto sì che il nostro punto di vista venisse maggiormente preso in considerazione; anche, per esempio, dal punto di vista della regolamentazione degli accessi negli hospice, che non possono essere parificati a quelli delle Rsa.
Abbiamo anche chiesto di essere coinvolti nel Piano pandemico nazionale. In queste situazioni non si possono convogliare tutte le attenzioni esclusivamente sulla cura.
C’è infatti una quota di malati che, per così dire, va male, che non ...[continua]
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