Lei si occupa di didattica della storia da tanti anni. Vorremmo parlare con lei di come si insegna la storia oggi...
Dopo le grandi speranze degli anni Sessanta e Settanta, quando le aule di storia contemporanea erano pienissime e passare da una lezione sul fascismo a una riunione in cellula in cui si discuteva ancora della scissione di Livorno, era molto facile, e dava a tutti l’illusione, che fare la storia dovesse essere di per sé un’attività formativa. Oggi, le cose sono molto cambiate.
Da allora però gli storici sono stati più realisti del re, nel senso che, con poche eccezioni, hanno preso alla lettera il riflusso, successivo agli anni ‘60/’70, e si sono rintanati nel loro lavoro. La scuola è stata abbandonata a sé stessa, tornando a essere territorio di conquista della pedagogia, tra l’altro molto segnata dalla presenza cattolica.
Va detto che nel frattempo, fortunatamente, erano nati una serie di movimenti di cooperazione didattica, l’Mce, il Cidi, l’Uciim, che di fatto supplivano alla mancanza di ricerca didattica. Era una ricerca sul campo che agiva, non solo come luogo di produzione di materiali, di idee e di strumenti per insegnare, ma anche come un potentissimo luogo di formazione. Lì si sono formate generazioni di docenti. All’inizio degli anni Ottanta si sono susseguiti grossi convegni di didattica, e poi è nato il Landis, Laboratorio nazionale per lo studio della didattica italiana, con l’idea di costruire dei parametri di qualità di una ricerca didattica.
Ecco, tutto questo processo però si è concluso con l’esaurirsi della generazione del ’68. Questa non è riuscita a creare un ricambio. Con l’avvento dei governi di centro-destra è finito tutto. Quando arriva la Moratti, toglie i comandi e fa sgonfiare di colpo non solo il Cidi ma anche l’associazionismo cattolico. La scuola a quel punto si trova davvero sguarnita.
Ora, uno dei problemi principali della didattica è l’idea che basti conoscere la materia per saperla insegnare. Qui si torna al problematico rapporto con l’università. Il docente universitario è convinto che la storia si insegni male perché non la si sa, il che è certamente vero: se non sai la storia non puoi insegnarla. Ma se questa è una condizione necessaria è sicuramente una condizione non sufficiente. Sapere la storia non è saperla insegnare. Su questa affermazione c’è ormai molta letteratura, anche di storici avveduti; ci sono poi i decreti delegati del ‘74 che, è vero, oggi sono obsoleti ma allora furono rivoluzionari nell’affermare che la formazione universitaria è incompleta per quanto riguarda l’insegnamento delle discipline.
D’altra parte, lo stesso docente universitario sa bene che quando fa una lezione di metodologia storica, e poi fa una lezione di storia, il ragazzo non è immediatamente capace di far interagire i due saperi. Mettere assieme le cose – storia, metodologia, scienze sociali, pedagogia - e costruire un sapere tecnico nuovo, cosa che dovrebbe essere compito della didattica, è un qualche cosa che tradizionalmente l’università non considera far parte dei suoi compiti. Fortunatamente negli ultimi anni qualcosa sta cambiando.
L’ultimo documento del Consiglio Universitario Nazionale fa riferimento - ed è una rivoluzione - all’esigenza di aprire insegnamenti di didattica disciplinari. Questi insegnamenti sono previsti sia nella prossima formazione del docente, ma soprattutto al primo anno di praticantato, di tirocinio. Laddove ripartisse il pi ...[continua]
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