In Germania, l’elaborazione della memoria del regime nazionalsocialista e dei suoi crimini si è svolta lungo varie tappe. Puoi raccontare?
Quando parliamo di culture della memoria dopo la seconda guerra mondiale, dobbiamo tenere presente che la memoria non è solo fatta di quello di cui ci si ricorda e di chi se lo ricorda, ma è un discorso politico, sociale, architettonico caratterizzato da una grande complessità. Un discorso che si compenetra con la formazione dell’identità dei gruppi, delle società, delle nazioni, con l’identità europea, in questo caso. La cultura della memoria è un processo che inizia con i fatti storici e si sviluppa attraverso il loro riemergere nel rapporto tra le generazioni. La prima fase nella storia della rielaborazione della memoria del nazismo e dei suoi crimini coincide con il cancellierato Adenauer e viene definita fase della rimozione: nessuno parla del passato e non c’è nessuna forma di commemorazione, fatta eccezione per alcune tracce sparse. Teniamo anche conto che il processo di denazificazione è stato estremamente marginale. Per esempio, la grandissima parte dei magistrati nazisti continua a esercitare la professione nella Repubblica federale tedesca. Lo stesso segretario di stato di Adenauer, Hans Globke, era stato uno degli estensori delle leggi di Norimberga!
La seconda fase di questo processo è caratterizzata invece dall’elemento commemorativo e viene associata alla figura di Willy Brandt. Il momento chiave è il 1970, quando Brandt si inginocchia davanti al Memoriale alla resistenza del ghetto di Varsavia: con questo gesto di umiltà dal valore simbolico immenso, quasi fosse un’intera nazione a inginocchiarsi, voleva dare una risposta ai movimenti giovanili che chiedevano di fare chiarezza sul passato tedesco. La specificità fortissima del ’68 -e poi anche dell’extraparlamentarismo e degli anni di piombo- in Germania consiste proprio in questo chiedere ai propri padri conto dei loro misfatti. La stessa Rote Armee Fraktion è caratterizzata in modo pregnante dalla volontà di fare giustizia dei crimini di cui si è macchiata la generazione dei genitori.
La terza fase è la fase cognitivo-commemorativa, che inizia verso la metà degli anni Ottanta, ma ha il suo compimento soltanto con la caduta del muro di Berlino. L’accesso agli archivi dei paesi dell’Europa orientale permette finalmente di fare luce sugli aspetti rimasti in ombra e di ricostruire le proporzioni della storia dell’Olocausto. Così, al bisogno di elaborare il senso di colpa che caratterizza i memoriali della seconda fase, si aggiunge anche il bisogno di offrire dei dati, di capire attraverso quali processi politici si arrivi alla miseria distruttiva dell’Olocausto.
In questo senso è emblematico il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, qui a Berlino. C’è la biblioteca sotterranea, in cui si raccoglie tutto quello che sappiamo sull’Olocausto, che permette di documentarsi, conoscere, capire. Poi, dopo essersi misurati con l’oggettività dei fatti storici, si riemerge tra le stele del memoriale sovrastante e ci si trova immersi nel riflesso simbolico di quei fatti. E si rimane comunque travolti, disorientati dall’impossibilità di comprendere a fondo, dalla radicalità della colpa. Il memoriale di terza generazione cerca proprio di rispondere alla sfida di coniugare la razionalità e la conoscenza con l’etica.
Cosa emerge se si confronta questo processo di rielaborazione della memoria con quello che ha avuto luogo in Italia rispetto al fascismo?
Come dicevo prima, ogni cultura della memoria comincia con i fatti storici. E nel caso dell’Olocausto le proporzioni dei crimini nazisti in Germania sono diverse dall’Italia. Se confrontiamo per esempio il Volksgerichthof di Roland Freisler e il Tribunale di guerra fascista, il rapporto tra le condanne a morte è di cento a uno. Questo non significa certo riabilitare il fascismo perché anche in Italia ci sono state le stesse dinamiche persecutorie, che hanno portato alla deportazione e allo sterminio di un’ampia parte della popolazione ebraica e politica Qualitativamente si tratta della stessa violenza, ma in Germania c’è stata una radicalità quantitativa enorme, che ha impresso il suo segno sulla cultura della memoria. Un’altra differenza che si riflette in modo determinante nelle cul ...[continua]
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